II: Serifo

Acrisio non vedeva la figlia da quando l'aveva rinchiusa nella cella da lui stesso concepita; del resto, non aveva il coraggio di guardarla negli occhi, la coscienza non glielo permetteva. Era trascorso ormai qualche anno dall'ultima volta che l'aveva vista. E sebbene si sentisse al sicuro dalla morte, si sentiva tremendamente maledetto per la situazione che si era venuta a creare. Finché un giorno ebbe bisogno di andare verso la segreta, anche solo per toccare la botola che lo separava dalla figlia. Così fece e, chinatosi su di essa, pianse.

Stava cercando di calmarsi quando udì un allegro strepito infantile. Accostò l'orecchio alla botola e trattenne il respiro: era proprio la voce di un bambino, e poco dopo riconobbe quella di Danae, anch'essa festosa. Com'era possibile? Che stava succedendo? Acrisio non sapeva cosa pensare, ma respingeva con tutte le sue forze l'idea che il piccolo potesse essere quel “figlio di sua figlia” rigurgitato dal petto profetico della Pizia. D'altra parte introdursi nella camera di bronzo senza far uso della chiave sarebbe stato impossibile a chiunque. Chi c'era dunque laggiù? Non v'era tempo da perdere: bisognava arrivare alla verità. Afferrata la chiave che aveva portato con sé, a una a una tolse le mandate che assicuravano l'inaccessibilità al luogo.

Danae e il bimbo si bloccarono immediatamente e attesero immobili di scoprire chi stava aprendo la botola; la nutrice se ne era andata da troppo poco tempo perché fosse già ora di tornare. E infatti non si trattava di lei: dalle scale, rischiarata dal lume della torcia che reggeva, una figura inconfondibile scendeva dando le spalle a Danae. “Padre!”, esclamò la giovane. E l'istinto fu di gettarsi al collo come quando lo vide rientrare a palazzo una sera di tanto tempo prima, ma stavolta il timore la frenò. Padre e figlia si fissarono alcuni istanti senza dire una parola. Poi lo sguardo di entrambi si posò sulla piccola creatura intenta a studiare Acrisio, così grave di aspetto, e Danae si affrettò a rompere il silenzio. “Padre, lui è Perseo, mio figlio… Tuo nipote. Non è stupendo? – disse posando materne carezze sul capo del piccolo e sciogliendosi in un sorriso. “Tuo figlio… – rispose Acrisio fissandolo torvo e incredulo. – E dimmi, chi sarebbe mai il padre?”. “O padre… davvero un incredibile sposo è colui che mi ha reso una madre così felice!”, esclamò Danae. E la fanciulla raccontò al sovrano quanto era accaduto qualche anno prima e di come il nipote che stava osservando fosse il figlio di Zeus l'onnipotente.

Ma una simile storia non poteva convincere il re di Argo. Acrisio infatti dapprima restò muto, poi scoppiò in una risata perversa e accusò la figlia di aver corrotto la nutrice per farsi portare un amante, e di volerla proteggere con quell'assurdità che non stava né in cielo né in terra. Danae era tornata a rappresentare il pericolo più temuto, stavolta con una ragione in carne e ossa. Acrisio doveva sbarazzarsene: di tutt'e due, per sempre.

Separatosi nuovamente da lei, si precipitò nell'andròn del palazzo e in preda alla collera mise insieme delle assi di legno e ne ricavò una cassa. Durante la notte poi, quando la città dormiva, tornò nella segreta e prelevò i due prigionieri. Dopo averli imbavagliati e legati, prese lo scrigno e li condusse per quasi sessanta stadi fino a raggiungere la spiaggia. Con le sue stesse mani forzò Danae e il bambino dentro il terribile feretro, lo assicurò con delle grosse corde e lo spinse in mare fino a fargli prendere il largo. Ciò che avvenne dopo lo raccontò un poeta del VI secolo a.C., Simonide di Ceo, con una toccante poesia che ci ha lasciato intitolata Lamento di Danae:

Quando nell'arca regale l'impeto del vento e l'acqua agitata la trascinarono al largo, Danae con sgomento, piangendo, distese amorosa le mani su Perseo e disse: "O figlio, qual pena soffro! Il tuo cuore non sa; e profondamente tu dormi così raccolto in questa notte senza luce di cielo, nel buio del legno serrato da chiodi di rame. E l'onda lunga dell'acqua che passa sul tuo capo, non odi; né il rombo dell'aria: nella rossa vestina di lana, giaci; reclinato al sonno del tuo bel viso. Se tu sapessi ciò che è da temere, il tuo piccolo orecchio sveglieresti alla mia voce. Ma io prego: tu riposa, o figlio, e quiete abbia il mare; ed il male senza fine, riposi. Un mutamento avvenga ad un tuo gesto, Zeus padre; e qualunque parola temeraria io urli, perdonami, la ragione m'abbandona.
(Simonide di Ceo, Lamento di Danae)

Zeus non rimase indifferente al pianto della sua amata e impedì al mare di inghiottire quel fragile involucro sbattuto in tutte le direzioni. Dopo aver vagato sui flutti, per più di ottocento stadi, ora al chiaro di luna, ora sotto l'occhio incandescente del sole, ora bersagliata da raffiche di pioggia e quando ormai Danae e Perseo giacevano stremati nella loro seconda prigione, la cassa inaspettatamente grattò: finalmente aveva toccato terra! Un'isola; si chiamava Serifo e l'alba la stava tenendo nel suo abbraccio rosa in attesa dei primi raggi di sole.

Un pescatore si accingeva a gettare le reti, ma l'insolito approdo che si trovò di fronte, lo distolse dalla sua occupazione. Dapprima ispezionò cauto il carico girandovi attorno, poi si decise a tagliare le funi che lo chiudevano. La scena che gli si offrì, lo fece rabbrividire: una giovane donna stava inerte in posizione rannicchiata, stringendo al seno un bambino di forse tre anni. Il contatto con l'acqua era stato così prolungato che i loro corpi sembravano aver tolto al mare il suo colore, le labbra erano freddi spicchi violacei, le mani e i piedi una serie ininterrotta di molli grinze. Per volere divino però non erano morti e Ditti, questo il nome del pescatore, non perse un attimo e li portò nella reggia di suo fratello Polidette, sovrano dell'isola. In breve tempo i naufraghi furono rimessi in forze e Danae recuperò appieno il suo aspetto. Non occorse molto a Polidette per invaghirsi della fanciulla. Ma purtroppo era un uomo avido che in virtù del suo potere considerava di sua proprietà tutto ciò che stava sull'isola. Non a caso il suo nome è anche un sostantivo che ricorre in due versi dell'inno omerico A Demetra, dove il signore degli inferi, Ade, viene indicato al verso 9 proprio con la parola polydekte e al verso 17 con la parola polydegmon, letteralmente colui che accoglie molti, prerogativa del sovrano dell'oltretomba. Se Danae dunque era scampata ai suoi primi due sepolcri, un terzo era pronto a imprigionarla di nuovo. Divenne infatti la schiava di Polidette il quale ne abusava ogni volta che voleva.

Perseo era troppo piccolo per poter fare qualcosa, ma dentro di lui non venne mai meno il desiderio di vendicarsi non appena fosse stato possibile. Ciò significava attendere l'età adulta e un giorno finalmente arrivò. Certo, Polidette sapeva di essere odiato dal ragazzo, e anch'egli d'altra parte nutriva per lui lo stesso sentimento; dopotutto era a causa della sua esistenza che non poteva disporre di Danae come avrebbe voluto, ossia farla propria moglie. Il re aveva indubbiamente messo in conto che prima o poi quel piccolo ospite sarebbe stato pericoloso. Così, come già era successo col re di Argo, anche per il signore dell'isola di Serifo, il figlio di Zeus era un personaggio scomodo, di cui bisognava liberarsi.

L'occasione non mancò. Al tempo in cui il giovane poteva finalmente riscattare la madre, era “in palio” la mano di Ippodamia, la figlia del re dell'Elide, Enomao. La principessa era divenuta letteralmente un premio da vincere dopo che il padre, esattamente come era accaduto ad Acrisio, aveva saputo da un oracolo che il marito di sua figlia l'avrebbe ucciso. Ovviamente, per scongiurare un simile destino, l'uomo avanzò coi pretendenti delle richieste tali che il matrimonio diveniva praticamente impossibile. Polidette, uno degli aspiranti, decise di organizzare un éranos nuziale, ossia un banchetto di cui si sarebbe servito per allontanare Perseo una volta per tutte, apparentemente senza destare sospetti.

Polidette riunì i suoi amici – fra i quali vi era anche Perseo – e disse che voleva fare una colletta per il banchetto di nozze di Ippodamia figlia di Enomao.
(Apollodoro, Biblioteca, 2.4.2)

In particolare scelse come dono da portarsi il cavallo. Come avviene ai giorni nostri, anche allora possedere o poter comprare questo animale era prerogativa delle famiglie più abbienti. Di certo Perseo, ridotto alla servitù, non ne possedeva e mai sarebbe riuscito a procurarselo. Tuttavia la richiesta era perentoria e imponeva che anche lui dovesse presentarsi con un cavallo. Ferito nell'orgoglio ma non disposto a lasciarsi umiliare una volta ancora, Perseo andò al cospetto di Polidette e sfidandolo gli disse che non un cavallo, ma la testa di Medusa sarebbe stato il suo dono.

Al nome di Medusa chiunque sarebbe stato percorso da un brivido. Si trattava di una creatura terribile; oltre all'aspetto, il vero motivo di orrore erano i suoi occhi: chi li guardava, si pietrificava all'istante e per sempre. Tuttavia, fatto salvo per il potere dello sguardo, Medusa in origine non era assolutamente una creatura mostruosa. Con queste parole ce la descrive Perseo:

Medusa era di una bellezza meravigliosa,
e fu desiderata e contesa da molti pretendenti,
in tutta la sua persona nulla era più splendido dei capelli.
Ho conosciuto un tale che sosteneva di averla vista.
Si dice che il signore del mare la violò in un tempio di Minerva:
la figlia di Giove si voltò indietro e si coprì i casti occhi con l'egida,
ma perché il fatto non restasse impunito,
trasformò i capelli della Gorgone in schifosi serpenti.
(Ovidio, Metamorfosi, IV, 794-801)

Il signore del mare è naturalmente Poseidone, mentre Minerva è Atena, la vergine figlia di Zeus.

Riguardo agli occhi di Medusa invece, da sempre celavano quel terribile segreto e se ne deduce che i suoi pretendenti giacevano da qualche parte immobilizzati in corpi di pietra.

Nel racconto che Perseo fa di Medusa inoltre, la chiama Gorgone. Questa parola deriva dal greco gorgòs che significa terribile, feroce e l'appellativo fu riservato a lei e alle sue due sorelle. Le Gorgoni infatti erano tre, ma la loro famiglia non si esauriva con esse, poiché altre tre sorelle, con caratteristiche diverse, le affiancavano.

Vi stanno le Forcidi, tre,
millenarie fanciulle - cigni, a vederle -
una sola pupilla per tutte, un identico dente.
Mai si posò su di loro sguardo radioso di sole, o di notte lunare.
Accanto, le loro sorelle, pennute, villose di rettili:
tre Gorgoni, schifo del mondo.
Un'occhiata, e non c'è creatura che serbi il respiro.
(Eschilo, Prometeo incatenato, 794-800)

Perseo dunque si era proposto per un'impresa che aveva davvero dell'impossibile. Perché osare tanto? Valeva realmente la pena rischiare a tal punto la vita per rispondere alla richiesta di un cavallo? La risposta era sì. Ci fu un tempo infatti in cui Poseidone appariva sotto le sembianze di un cavallo e nelle raffigurazioni più antiche Medusa era una giumenta che divenne sposa del dio del mare. Perseo questo lo sapeva e, se non il denaro poteva concedergli il costoso animale, lo avrebbe potuto l'audacia, portandolo ad appropriarsi di un cavallo ben più prezioso: quello evocato da Medusa. Ma per raggiungerla doveva prima recarsi nel regno delle Forcidi, dette anche Graie, le inquietanti sorelle dall'unico occhio e dall'unico dente.