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ORSA MAGGIORE

Ursa Major, Ursae Majoris

UMa

 

05 - Orsa Maggiore (mito)

La costellazione dell'Orsa Maggiore nell'Uranographia di Hevelius (1690).
Immagine: www.atlascoelestis.com

 

L’Orsa Maggiore: ovvero la Grande Orsa e potremmo dire anche l’Orsa Madre. Proprio così, perché di una madre si tratta. Il suo nome è Callisto, in greco significa “la più bella” e la più bella non era un’orsa, ma una ninfa dell’Arcadia montuosa che si era votata ad Artemide, la dea della caccia. Chi voleva seguire Artemide doveva non solo possedere spiccate doti venatorie, ma anche rimanere vergine, come la dea. Callisto era così ed era talmente virtuosa nell’arte della caccia da essere la prediletta della sorella di Apollo.

 

Quando una fibbia aveva fermato la sua veste

e una bianca benda i capelli incolti,

una volta preso in mano un giavellotto liscio, oppure un arco,

era una perfetta soldatessa di Diana,

e sul Menalo mai era capitata una più cara a Diana Trivia.

(Ovidio, Metamorfosi, II, 412-416)


 
Un giorno, quando Apollo col suo carro infuocato aveva percorso ormai più di metà del tragitto celeste, Callisto si trovava in un bosco fino ad allora scampato alla mano dell’uomo; era un lussureggiare di foglie e aghi splendenti che si intrecciavano col bruno dei tronchi, ora lisci ora nodosi, e tutti dal legno pieno di vigore. Abeti, lecci, castagni, querce popolavano da secoli la montagna che da lontano si presentava abbigliata con un grande manto verde scuro. I fiori infine, ammorbidivano la ruvidità dei pendii con teneri petali mentre la freschezza dei loro colori si sposava qua e là con rocce argentate. Non è esagerato dire che quel bosco avrebbe potuto chiamarsi anch’esso Callisto, perché era come lei: bellissimo e ancora vergine. La ragazza vi era capitata alla fine di una giornata trascorsa a inseguire nuove prede ed era ormai desiderosa di riposarsi.

 

Qui depose dalla spalla la faretra, allentò l’arco flessibile,

ed eccola sdraiata sul suolo ricoperto dall’erba,

col capo poggiato sulla faretra colorata.

(Ovidio, Metamorfosi, II, 419-421)
 

Nel bosco però capitò anche Zeus che, alla vista della giovane, non seppe resistere e come già con altre era accaduto, desiderò farla sua. Per non intimorirla o metterla sulla difensiva, astutamente le si avvicinò assumendo proprio le sembianze di Diana:

 

“O vergine, mia cara compagna, su che cime sei stata a cacciare?”.

La fanciulla balza su dalle verdi zolle e risponde:

“Salute, o dea, che a mio parere, anche se lui mi sente,

sei più grande di Giove!”.

Egli ride, divertito a sentirsi preferire a se stesso.

(Ovidio, Metamorfosi, II, 426-430)
 

E fu in quel momento che bramò possederla manifestandosi in tutta la sua grandiosità e, senza lasciarle il tempo di capire, la strinse a sé vanificando per sempre il voto fatto a Diana. Alla fine, così come improvvisamente era apparso, improvvisamente il re dell’Olimpo si dissolse nell’aria facendo perdere ogni traccia.

 

Giove ritorna vincitore in cielo. Lei non vuole più vedere quel bosco,

quegli alberi che sanno; andandosene di lì,

per poco non si scorda di riprendere la faretra con le frecce,

e l’arco appeso a un ramo.

(Ovidio, Metamorfosi, II, 437-440)
 

Callisto vagava disperata tra i sentieri del possente Menalo, dove tutto continuava a essere selvaggio e meraviglioso. Con lacrime di rabbia, la paura ancora martellante nel cuore, si faceva strada tra le felci baciate dagli ultimi raggi del sole e pini canori dentro i quali soggiornavano invisibili passerotti. A un tratto la figura fiera e agile di Artemide apparì a poca distanza dalla sventurata assieme al suo seguito. La dea vide Callisto e la chiamò, ma ella d’istinto fuggì, vedendo nella sua beniamina ancora l’immagine ingannatrice di Zeus. Fu la presenza delle altre ninfe a rivelarle che non era così. E si unì al gruppo.

 

Ahi, quanto è difficile non tradire la colpa col viso!

Leva appena gli occhi da terra, e nemmeno si mette al fianco della dea come una volta,

non è più la prima di tutta la schiera; tace, invece,

e arrossendo fa trasparire l’offesa fatta al suo pudore.

Se non fosse che è una vergine,

Diana potrebbe intuire il misfatto da mille segni.

(Ovidio, Metamorfosi, II, 447-452)
 

Tuttavia, la verità era destinata prima o poi a venire allo scoperto: Callisto infatti portava nel grembo un figlio. Fu la luna a scandire dolorosamente, mese dopo mese, l’età dell’adulterio. Per nove volte il candido disco rischiarò la notte fino a che venne il giorno in cui Callisto, insieme alla dea e alle altre ninfe, intraprese la sua ultima battuta di caccia. Al pomeriggio ognuna di loro vantava ormai un ricco bottino, simile a quello che Artemide esibiva con orgoglio, e l’abbondanza della selvaggina dava la misura del dispendio di energie richiesto per conquistarla. Così, quando giunsero in prossimità di un ruscello dall’acqua di cristallo, Artemide propose di fermarsi per un bagno.

 

Tutte si tolgono i veli, Callisto sola cerca di prendere tempo.

Siccome esita, le sfilano la veste, e levata questa,

col corpo nudo si scopre anche la colpa.

“Via di qui! – grida Diana Cinzia;

– non profanare questa fonte sacra!”

e le ordina di lasciare il seguito.

(Ovidio, Metamorfosi, II, 460-465)
 

Dall’Olimpo intanto un’altra dea aveva osservato tutto fin dall’inizio e attendeva il momento giusto per mettere in atto la sua vendetta: era Giunone, la consorte di Giove, tradita una volta di più dal suo sposo. Quando dall’alto vide la scena dello scandalo, si incendiò di rabbia.

 

“Davvero ci mancava anche questo, adultera,

che tu restassi incinta e partorendo rendessi noto a tutti

l’oltraggio fattomi e dessi la prova dell’indegna condotta del mio Giove!

Me la pagherai, però, ché io ti toglierò questa forma di cui ti compiaci

e per la quale piaci a mio marito, svergognata!”

(Ovidio, Metamorfosi, II, 471-475)
 

Detto questo, inflisse a Callisto una punizione terribile.

 

L’affrontò e l’afferrò davanti per i capelli e la gettò a terra bocconi.

Quella tendeva le braccia implorando pietà: le braccia cominciarono

a farsi ispide di nero pelame, e le mani a curvarsi in adunchi unghioni

e a fungere da piedi, e il viso prima ammirato da Giove

a deformarsi in un largo ceffo;

e perché non commuovesse nessuno

con suppliche e preghiere, le fu tolto il dono della parola:

dalla gola roca esce un suono iracondo e minaccioso,

che incute paura.

Anche se fatta orsa, però, conserva la mente di prima e,

manifestando la sua sofferenza con continui gemiti,

leva le mani, anche se non più mani, verso il cielo e gli astri,

intendendo, sebbene non possa dirlo, che Giove è stato ingrato.

(Ovidio, Metamorfosi, II, 476-488)
 

Questo fu il destino cui andò incontro Callisto suo malgrado. Lei che era della schiera dei cacciatori, si ritrovò in quella delle prede, e quante volte la paura l’assalì, di giorno, di notte: a volte era per gli uomini, sagome ostili che intravedeva nascosta fra le rocce e allora scappava per non incorrere nelle loro frecce; al calare dell’oscurità erano invece i lupi ad atterrirla con i loro ululati e le pupille rosse che sbucavano dai cespugli; ma anche davanti agli stessi orsi Callisto arretrava piena di spavento, perché la verità era che dentro a quel grande corpo impellicciato, batteva un cuore umano che mai aveva smesso di essere tale.

Passarono tre lustri e sul monte Erimanto, un cacciatore di altrettanti anni dava prova del suo talento. Si chiamava Arcade e fu lui che diede il nome alla regione dell’Arcadia. Ma il suo nome è legato anche al greco arktòs, che significa orso. E infatti Arcade altri non era che il figlio di Callisto e di Zeus. Non conobbe mai la donna che lo diede alla luce perché il re dell’Olimpo lo portò via appena nato e lo affidò a Maia, madre di Ermes.

Aveva quindici anni quando si trovò all’improvviso faccia a faccia con un orso. Arretrò di colpo e in un attimo imbracciò l’arco, lo munì di freccia e tesolo, lo puntò contro l’animale. Fissò immobile l’avversario, pronto a scattare, e mentre lo guardava vide che non era un orso, ma una femmina d’orso: era sua madre. Arcade tuttavia non poteva saperlo e per lui era solo una femmina d’orso, una bellissima femmina d’orso, la cui uccisione l’avrebbe fatto rincasare da eroe. Callisto invece subito riconobbe il figlio e sobbalzò. Guardò Arcade con occhi acquosi senza che alcuna parola potesse essere pronunciata. Fece per avvicinarsi, ma come mosse il primo passo, Arcade si affrettò a scoccare la freccia.

 

L’avrebbe il figlio ignaro trafitta con dardo appuntito,

se non fossero stati rapiti entrambi in cielo.

Stelle vicine ora splendono: Orsa si chiama la prima,

s’atteggia Artofilace come chi segue a tergo.

Giunone infuria ancora e chiede alla candita Teti

che l’Orsa non si lavi nell’onde e non le tocchi.

(Ovidio, I Fasti, II, 187-192)
 

E a rapirli entrambi in cielo non fu altri che Zeus.

 

Li bloccò entrambi, e insieme bloccò il delitto,

e sollevatili in aria con un vento veloce

li collocò nel cielo facendone due costellazioni vicine.

(Ovidio, Metamorfosi, II, 505-507)
 

Le due costellazioni sono l’Orsa Maggiore e Artofilace, conosciuto oggi come Bootes: queste le stelle in cui madre e figlio rifulgono da tempi antichissimi.

Ovidio descrive Artofilace “come chi segue a tergo”, e infatti il nome Artofilace è composto dalle parole greche arktòs che significa orso e phylos che significa amante, seguace: Artofilace è colui che segue l’orsa e a essa è unito da un legame d’amore.

L’Orsa Maggiore poi non si lava nelle onde e non le tocca. Con questa espressione si è voluto giustificare il fatto che la costellazione non scende mai sotto l’orizzonte, dove si riteneva vi fosse l’oceano. L’Orsa Maggiore è infatti alle latitudini mediterranee una costellazione circumpolare, di quelle cioè che non tramontano mai, non si inabissano sotto la linea dell’orizzonte. Fu Giunone a volere che accadesse così: offesa dalla presenza di Callisto nel firmamento, si recò da Oceano, il più vecchio signore del mare sul quale regnava affiancato dalla moglie Teti.

 

“Volete sapere perché io, la regina degli dèi,

sono venuta qui dalle celesti dimore?

Perché un’altra sta in cielo al posto mio! Si dica pure che sono bugiarda se,

quando la notte avrà oscurato il mondo, non vedrete delle stelle

appena assunte agli onori del sommo cielo (che offesa sanguinosa per me!)

nel punto dove l’ultimo circolo, il più breve, recinge l’estremità dell’asse”.

(Ovidio, Metamorfosi, II, 512-517)
 

Oceano e Teti ascoltarono la dea fino in ultimo, quando espresse il suo desiderio per quella manciata di stelle:

 

“Voi che mi avete allevato, se vi sentite offesi anche voi da questo spregio,

impedite all’Orsa di scendere nei vostri gorghi azzurri, respingete quella costellazione

accolta in cielo come prezzo di un adulterio,

in modo che la sgualdrina non si immerga nelle acque pure”.

(Ovidio, Metamorfosi, II, 527-530)
 

E i sovrani del mare abbassarono per sempre le loro acque affinché l’Orsa non potesse mai toccarle. Questo fu il mito di Callisto, mito che in Grecia fu molto sentito dal momento che venne preso come riferimento per iniziare le ragazze alla vita matrimoniale.

Vi era infatti in Grecia un rituale chiamato arktèia cui le giovani in procinto di sposarsi venivano sottoposte. L’arktèia segnava il passaggio dalla condizione di vergine, nel mito espressa dalla dea Artemide, a quella di sposa, rappresentata da Era/Giunone. Le ragazze venivano simbolicamente a incarnare Callisto, la vergine che perse la sua verginità divenendo la donna di Zeus.

Il mitografo Apollodoro, raccontando la storia di Callisto (Biblioteca, III, 8, 27-28), chiama la seguace di Artemide “ninfa”, precisando che così la descrisse l’antico poeta Esiodo. La puntualizzazione vuole indicare il secondo significato del termine nymphe, col quale non si intendevano soltanto le divinità legate al mondo naturale, ma anche le “donne pronte per le nozze”. Callisto era dunque una ninfa in questo senso della parola e ad Atene le “donne pronte per le nozze”, prima del matrimonio dovevano consacrarsi ad Artemide attraverso il rito dell’arktèia. La celebrazione avveniva nel demo attico di Braurone, dove le giovani dovevano trasferirsi per un periodo e rendere omaggio alla dea imitando le orse; durante il rito indossavano un manto chiamato krokotos, che aveva lo stesso colore dell’animale e al termine del soggiorno lo dovevano offrire ad Artemide. Un sacrificio alle due dee suggellava il passaggio dalla protezione di Artemide a quella di Giunone; ad Artemide infine le ragazze offrivano tutto ciò che ricordava la loro infanzia. La festa religiosa era nota anche col nome di Brauronia e aveva cadenza quinquennale, il 16 del mese di Munichione che per noi corrisponde ad aprile-maggio.

Nell’Orsa Maggiore va ricordata però anche la presenza del Grande Carro, una costellazione nella costellazione che coincide con la schiena e la coda del mammifero artico (di nuovo si noti il legame del nome della calotta terrestre con l’orso). Essa va ricordata per ragioni etimologiche in quanto i Romani videro in quelle stelle sette buoi, in latino septem triones. Da questa identificazione deriva la nostra parola “settentrione”, che designa appunto il nord così come vuole la regione celeste dove dimora il Grande Carro.

L’arte ha celebrato il mito di Callisto specialmente nel Rinascimento con pittori del calibro di Palma il Vecchio o di Tiziano, per rimanere in ambito nazionale. Il momento sottolineato dagli artisti è quello in cui Diana/Artemide scopre la gravidanza di Callisto durante il bagno ristoratore.

Ecco allora il dipinto di Palma il Vecchio del 1525 conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna, apparentemente privo di drammaticità.

 

05 - Orsa Maggiore (mito)

Diana e Callisto di Palma il Vecchio (1525/1528, Kunsthistorisches Museum, Vienna)

 

Diana è sdraiata al centro e fissa piuttosto indifferente una delle ninfe, quella all’estremità sinistra del quadro: è Callisto che scosta la veste dal grembo e vi posa lo sguardo, attirando a sua volta quello della dea. Le altre giovani sono concentrate su se stesse e nessuna sembra accorgersi dell’accaduto. Il candore della nudità dei corpi femminili è volutamente enfatizzato dall’accostamento con i colori scuri delle foglie e dell’acqua, così che si viene a creare un forte contrasto cromatico unito a una spiccata nitidezza dei contorni.
Chi guarda il dipinto di Palma il Vecchio senza conoscere il mito di Callisto, ha l’impressione di trovarsi di fronte a una scena assolutamente serena, dai toni pacifici, mentre in realtà sta per avvenire uno scandalo dalle conseguenze disastrose. Un’altra curiosità di quest’opera è la rappresentazione di Callisto e della giovane di spalle che si vede sulla destra: Callisto è infatti il ritratto, con qualche variazione, della statua dell’Afrodite Callipigia di Napoli, mentre la giovane di spalle è la copia, sempre con un tocco personalizzato, della Venere di Milo.

Di circa trent’anni posteriore è invece il quadro di Tiziano, appartenente ormai all’ultima fase pittorica dell’artista, il quale peraltro ispirò lo stile, il cromatismo e la raffigurazione psicologica dei personaggi di Palma il Vecchio.

 

05 - Orsa Maggiore (mito)

Diana e Callisto di Tiziano (1556-1559, Scottish National Gallery)

 

Tiziano era già settantenne quando iniziò il dipinto di Diana e Callisto nel 1556, per terminarlo nel 1559.
A differenza dell’opera del Palma, qui lo scandalo suscitato da Callisto è evidente: l’amante di Zeus è tenuta ferma da due compagne, mentre una terza le toglie la veste scoprendo così il ventre gravido. Artemide siede sull’altra sponda del ruscello attorniata da quattro vergini del suo seguito e, incredula e sdegnata, indica il grembo impuro della sua prediletta. Callisto è palesemente sofferente e nei suoi occhi si legge un profondo senso di vergogna.
Come la tradizione mitica vuole, le protagoniste del momento della rivelazione sono nude, condizione questa che fa sì che il bianco corporeo sia il colore dominante in un dipinto su Diana e Callisto, il quale a sua volta s’impregna di grande luminosità. Nel quadro di Tiziano tuttavia, il contrasto dei corpi con lo sfondo – e quindi anche la luce che ne deriva – è meno enfatizzato rispetto a quello del Palma. Mentre quest’ultimo infatti ha giocato essenzialmente su due colori, il bianco ambrato delle donne e il verde scuro del paesaggio, Tiziano ha voluto ampliare la gamma cromatica immergendo le figure in una miscela di verdi, rossi, blu e così facendo ha smorzato il riverbero che esse avrebbero naturalmente prodotto. La scelta si spiega col fatto che Tiziano inaugurò un nuovo modo di fare pittura, che si tradusse in libertà compositiva, abolizione dei contorni netti e affidamento dell’integrazione della scena ai colori, tanto che la sua ultima produzione viveva di elementi impressionistici, anche se alla nascita dell’impressionismo mancavano ancora più di due secoli.

In anni prossimi all’illuminismo – è il 1690 – troviamo infine la tavola uranografica dell’astronomo polacco Johannes Hevelius (a inizio pagina), che rappresentò in un atlante tutte le costellazioni. Non più l’immagine della ninfa dunque, ma quella triste dell’orsa in cui Callisto venne tramutata.

 

 

 

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