III: Al di là dell'inclito Oceano

Ciò che attendeva Perseo era un viaggio nei meandri della Notte. Sia le Gorgoni che le Graie infatti avevano dimora…

al di là dell'inclito Oceano, all'estremo, verso la notte,
dove sono le Esperidi acute di voce.
(Esiodo, Teogonia, 274-275)

Le terre oltre i confini di Oceano, che nella concezione greca circondava il pianeta ed era quindi l'ultima frontiera, erano immaginate anche come luoghi oltre la realtà. Oceano era la linea di demarcazione tra il mondo reale e quello fantastico, tra la storia e il mito. Là erano poste ad esempio le Isole dei Beati, ma anche creature mostruose come quelle che andava cercando Perseo.

Esiodo nella sua genealogia degli dèi dà la loro esatta ubicazione: dove sono le Esperidi.

Le Esperidi sono le figlie della Notte e, come indica l'etimologia del loro nome, sono le divinità dell'occidente: in greco infatti sia occidente che sera si dicono con la stessa parola che è espéra, da cui si comprende anche perché l'ovest – direzione in cui tramonta il Sole – sia associato al regno funesto di Notte.

Verso ovest e verso coste non illuminate dal Sole doveva dunque procedere l'audace figlio di Zeus. Ma se è vero che Notte è nera, senza luce, allora a Perseo non sarebbero bastate le sue sole forze per imboccare la strada che conduceva al cospetto delle Graie.

Dopo essersi congedato da Polidette, si ritirò nella sua stanza e attese il nuovo giorno. Sentiva freddo, ma non la stagione c'entrava; era un gelo diverso, sceso inaspettatamente negli angoli più nascosti della sua anima. Non riusciva ad addormentarsi e si chiedeva se già quello non fosse un avvertimento di Notte a non osar varcare confini non destinati ai mortali. Ma la stanchezza alla fine lo vinse e mentre giaceva nel sonno più profondo, due divinità si allontanarono dall'Olimpo e gli fecero visita in sogno promettendogli di stargli accanto: erano Atena, ben lieta che qualcuno mettesse fine all'esistenza di colei che l'aveva oltraggiata, ed Ermes, Mercurio, probabilmente nella sua veste di psicopompo, letteralmente accompagnatore delle anime, quale era quando guidava i morti nel regno di Ade. Sì perché Perseo stava per intraprendere un viaggio per molti versi simile a quello dei defunti, sia in quanto a tinte che in quanto a pericolosità. Passate poche ore, un'ultima volta il Sole si alzò sopra di lui: era giunta l'alba e bisognava mettersi in cammino.

Il ricordo del sogno gli diede coraggio e così, salutata la madre che avrebbe voluto trattenerlo, partì per l'ovest. Fece meno soste possibili, voleva concludere in fretta la missione e lasciarsi alle spalle l'ansia che gli stava procurando. A un tratto, nell'ora in cui le ombre sono più corte, il Sole cominciò a venir meno e un repentino avanzare di tenebre lo colse alla sprovvista; era in prossimità dei confini di Oceano e il freddo che provò durante la sua ultima notte a Serifo, lo riconobbe in quel momento, affilato e ostile come allora, con la differenza adesso di rinvigorirsi ad ogni passo. Per un attimo Perseo si sentì solo, ma un soffio divino intervenne a scaldargli il cuore.

Varcato l'ingresso del mondo oltre la realtà, una vallata di erba nera si stendeva davanti a lui e sullo sfondo la sagoma caliginosa di un bastione si stagliava come un bassorilievo. Era la casa delle Graie, le Vecchie come significa la parola. Di nuovo Esiodo, il quale ne enumera solo due, ce le descrive come:

Le Graie dalle belle guance, canute fin dalla nascita,
che chiamano Graie gli dèi immortali
e gli uomini che vanno sulla terra,
Penfredo dal bel peplo e Enio dal peplo di croco.
(Esiodo, Teogonia, 270-273)

In ogni caso, due o tre che fossero, una cosa è certa come abbiamo già udito dalle parole di Eschilo, e cioè che condividevano un occhio e un dente. Davvero orribile doveva essere stare in loro presenza e ancor di più assistere a quello scambio di parti del corpo. Eppure a Perseo la condizione delle Graie si rivelò molto utile perché agendo d'astuzia, se ne servì per rubare loro le informazioni di cui aveva bisogno. Non poteva infatti pensare di affrontare Medusa a mani nude, oltretutto volgendo lo sguardo altrove per sfuggire alla pietrificazione. Sapeva che le Graie erano le uniche che potevano dargli le indicazioni per raggiungere le Ninfe, e le Ninfe erano coloro che possedevano l'occorrente per affrontare la Gorgone.

Quando Perseo arrivò al cospetto delle Vecchie, le trovò che stavano mangiando; naturalmente a turno. Le osservò mentre una dopo l'altra si estraevano un lungo dente dalla gengiva e, sporco di cibo, lo porgevano alla sorella più vicina, che a sua volta lo incastonava nella propria carne priva dell'osso. Solo una di loro poté vedere Perseo. L'occhio era grigio e spento, appannato da un velo di cataratta. Osservava il visitatore senza capire il motivo di tale presenza dato che nessuno metteva mai piede spontaneamente nella loro abitazione.

Perseo interruppe il penoso rituale e si presentò; senza preamboli chiese di indicargli la via che portava alle Ninfe ma le creature, ridotte a un cumulo di rughe, si rifiutarono di svelarglielo nonostante il monito di essere in presenza del figlio di Zeus. Tutte però a quella dichiarazione, vollero vedere il ragazzo e così giunse il momento di scambiarsi l'occhio. Perseo attuò allora il suo piano: approfittò proprio del breve momento del passaggio, quando nessuna delle tre lo aveva ancora applicato all'orbita oculare e con mossa lesta lo strappò dalla mano che lo stava cedendo.

Il gioco era fatto: o le Graie gli dicevano come raggiungere le Ninfe, o d'ora in poi avrebbero dovuto vivere solo d'immaginazione. Inutile dire che fu facile indurle alla resa. Così Perseo, dopo aver restituito l'occhio, poté andare a recuperare il secondo indizio della sua caccia al tesoro.

Altre strade, altri percorsi talmente diversi dal mondo reale da cui proveniva ed ecco che finalmente un paesaggio cupo ma dalle linee morbide gli si profilò davanti. Uno spumeggiare di chiome d'alberi sembrava chiamarlo a sé. Quanto tempo era passato? Ore? Giorni? Chi poteva dirlo. Oltre Oceano regnava Notte con la sua oscurità ma, strano a dirsi, era possibile distinguere tutto. Perché non era un buio pesto, ma una sorta di immensa e pesante ombra che privava ogni cosa dei propri colori e la rivestiva di neri e grigi.

Il Sole in quel posto non nasceva e non tramontava, semplicemente non esisteva. A Perseo sembrò di essere tornato indietro, alla sua infanzia inghiottita dalle tenebre della camera di bronzo. Allora c'era solo il corpo di sua madre a dargli calore, e un po' gli parve di sentirlo anche in quel momento forse per via dei contorni sfumati del bosco in cui era entrato. L'aria lì era leggera e stranamente tiepida; si aggirava tra i rami come uno spirito che tradiva la sua esistenza con un delicato frusciare di foglie. Perseo stava assaporando quel po' di pace che magicamente si era creata quando intravide poco più avanti delle figure femminili muoversi fra gli alberi. Erano le Ninfe, le benevoli divinità della Natura che stava cercando.

Avevano queste Ninfe, dei sandali con le ali, e la “kibisis” che era a quanto dicono, una specie di bisaccia; [Pindaro, ed Esiodo nello “Scudo”, dicono di Perseo: La <testa> del mostro tremendo, la <Gorgone>, avvolta nella kibisis, gravava sulle sue spalle. La kibisis viene così chiamata perché vi si ripongono abiti e cibo]. Le Ninfe avevano l'elmo di <Ade>.
(Apollodoro, Biblioteca, 2.4.2)

In queste righe un po' slegate e non prive di lacune dovute allo stato di conservazione del testo, veniamo a conoscere qual era l'equipaggiamento di Perseo: sandali alati, bisaccia dove chiudere la testa di Medusa e l'elmo del dio degli inferi, Ade. Questi, in qualità di sovrano del regno dei morti, era invisibile ai vivi al pari del mondo che reggeva. Indossare il suo elmo infatti significava vedere ma non poter essere veduto.

E approfittando di questo particolare, è interessante notare come nel mito di Perseo la vista occupi un ruolo di spicco: viene infatti sottolineata, tramite le Graie col loro unico occhio da dividersi in tre, una estrema insufficienza visiva, la quale poi viene invece eccessivamente compensata dalle loro sorelle, le Gorgoni, che possiedono addirittura il potere di pietrificare con lo sguardo. Perseo probabilmente si colloca strategicamente in mezzo raccogliendo in sé sia la vista che la non-vista: lui può continuare a vedere ma non può essere veduto che è come rendere gli altri ciechi.

Infine anche Ermes fece un dono al ragazzo. Questi trovò infatti lungo il sentiero che portava alle tre creature, la falce d'acciaio del dio con la quale poter decapitare l'unica Gorgone mortale. Ora Perseo aveva proprio tutto: la sua caccia al tesoro stava per giungere alla conclusione.

Attraverso rocce sperdute e impervie, attraverso orride forre,
giunse alla casa della Gorgone, e qua e là per i campi e per le strade
vedeva figure di uomini e di animali
tramutati da esseri veri in statue per aver visto Medusa.
(Ovidio, Metamorfosi, IV, 778-781)

Perseo cercò di non perdersi d'animo e con la massima attenzione si introdusse di nascosto nel loro covo. Eccole: stavano dormendo. Terribilmente sgradevoli erano alla vista, forse anche più delle Graie.

Le Gorgoni avevano teste avvolte da scaglie di serpenti, zanne grosse come quelle dei cinghiali, mani di bronzo e ali d'oro, con cui potevano volare.
(Apollodoro, Biblioteca, 2.4.2.40-43)

Quale delle tre era Medusa? E come poterle guardare senza rischiare la pietrificazione? Perseo allora le osservò evitando con cura la parte degli occhi. Poi la riconobbe. Il groviglio di serpi che le incorniciava il volto la rendeva inconfondibile. Eppure nonostante questo Medusa aveva conservato come un riflesso della sua originaria bellezza e, anche se dormiva, affiorava dal volto un'espressione malinconica, una ferita senza possibilità di rimarginarsi. Ma non c'era tempo da perdere, né pietà da provare.

Atena, sullo scudo risplendente, come su uno specchio, gli fece vedere l'immagine di Medusa e allora lui, presala con la sinistra per i capelli, con l'occhio fisso alla sua immagine, tenendo nella destra la falce, le tagliò la testa e, prima che si svegliassero le sorelle, se ne volò via.
(Luciano, Dialoghi Marini, 14)

Così la fanciulla dai meravigliosi capelli fu castigata per la seconda volta da Atena attraverso la mano di Perseo. Non c'era più vita in lei, ma questo non valeva per i suoi occhi che continuarono a conservare il loro potere di pietra; e proprio per questo il figlio di Zeus si affrettò a chiudere la testa mozzata nella kibisis delle Ninfe. Era fatta. Grazie all'elmo che lo rendeva invisibile, gli fu facile anche sfuggire alle altre due Gorgoni che, destatesi, si erano lanciate al suo inseguimento. Adesso era finalmente ora di tornare a casa. Perseo accelerò il suo rientro nel mondo della realtà sfruttando le ali che spuntavano dai sandali e, mentre volava in cieli che si rischiaravano sempre più, baciati dalla luce del Sole, non smetteva di pregustarsi la scena del suo ingresso a Serifo, e si sforzava di immaginare la faccia che avrebbe fatto Polidette. Immerso nei suoi pensieri, l'eroe percorse a volo la Libia e non si accorse che dalla kibisis fuoriuscì un po' di sangue della Gorgone.

Solcando la morbida aria con ali fruscianti,
se ne tornava portando con sé la testa della Gorgone:
e mentre trionfante si librava sulle sabbie della Libia,
dalla spoglia memorabile di quel mostro viperino
caddero alcune gocce di sangue che la terra,
assorbendole, animò in vari serpenti.
Per questo quella regione è infestata da tanti serpenti.
(Ovidio, Metamorfosi, IV, 614-620)