I: La nascita


Tutto ebbe inizio in una delle numerose cittadelle fortificate sparse fra i monti assolati del Peloponneso; si trattava di Argo e il re che ne possedeva il trono, lo raggiunse dopo una lunga contesa col fratello gemello, divenuto invece il sovrano della vicina ma meno prestigiosa Tirinto. Acrisio e Preto erano i nomi dei due fratelli, il primo divenne il re di Argo e il secondo di Tirinto. A loro si deve l'invenzione dello scudo, arma di difesa ideata proprio a fronte del loro combattimento.

Erano passati ormai diversi anni da quel conflitto fra eredi e la vita scorreva tranquilla, senza mai rivendicazioni da parte di Preto, né attacchi da parte di altre genti. Un giorno però Acrisio rientrò al suo palazzo adagiato sull'ampia pianura di Argo, con l'animo insolitamente cupo. Alzò gli occhi verso l'attigua collina di Larissa che insieme alle mura contribuiva a proteggere la città; a quell'ora il sole le dava l'ultimo saluto privandola dei suoi raggi il più dolcemente che poteva, ed era sempre incantevole fermarsi a guardare il ripetersi di quel congedo. Ma quella sera l'andarsene del sole gli fece per la prima volta paura. E nemmeno il baluardo naturale della collina lo faceva sentire al sicuro. Stava tornando da Delfi, la misteriosa città della Focide ai piedi del monte Parnaso, trecento chilometri a nord di Argo. Percorrere tutta quella strada sarebbe stata pura follia se non fosse che quello di Acrisio era stato un viaggio sacro. A Delfi infatti vi era l'oracolo più importante e frequentato della Grecia, quello di Apollo, il dio profetico per eccellenza, colui che aveva il potere di trasmettere il suo dono agli dèi e agli uomini. Nel santuario di Delfi dedicato alla divinità, Apollo parlava ai pellegrini attraverso una sacerdotessa conosciuta come la Pizia, dall'antico nome della città che era Pito. Il fedele che interrogava la divinità non poteva assistere direttamente al momento del responso, ma vi erano sacerdoti preposti all'intermediazione fra lui e la Pizia: la donna dopo aver bevuto alla fonte magica Cassotide e aver masticato foglie di lauro, la pianta sacra ad Apollo, si abbandonava a un'estasi mistica che la metteva in contatto col dio finché, febbricitante e invasata, pronunciava il vaticinio. I sacerdoti accanto a lei lo trascrivevano in esametri e lo riferivano al viandante che attendeva fuori. Anche Acrisio come tanti prima di lui e ancora tanti altri dopo, si recò al tempio. Era fondamentale per lui sapere se il futuro gli avrebbe riservato dei figli maschi per garantire la sovranità alla sua stirpe. Quando i sacerdoti gli si presentarono davanti col responso, gli dissero ciò che il dio aveva profetizzato:


da sua figlia sarebbe nato un figlio che lo avrebbe ucciso.
(Apollodoro, Biblioteca, 2.4.1)


Un figlio che lo avrebbe ucciso… Un figlio di sua figlia… Durante la lunghissima strada del ritorno, nella sua mente si ripeteva all'infinito quella sentenza. Danae, l'unica creatura che possedeva, purtroppo femmina, eppure così amabile e motivo di orgoglio per lui, avrebbe generato il suo assassino. Giunto a palazzo, era assorto proprio su questo pensiero quando ella gli corse incontro e lo abbracciò. Ma per la prima volta Acrisio non ricambiò il gesto con l'intensità che gli era solita, e si limitò a cingere fugacemente la fanciulla con braccia prive di vigore. Danae lo interpretò come un segno di stanchezza dopo un viaggio tanto impegnativo, ma Acrisio era invece altrove con la testa, progettava…

Le settimane passavano e il terrore dell'oracolo non lo lasciava in pace di giorno mentre di notte lo tormentava con sogni macchiati di sangue, finché giunse il momento in cui decise di allontanare una volta per tutte la maledizione:

Acrisio fece costruire sotto terra una camera di bronzo e vi teneva prigioniera Danae.
(Apollodoro, Biblioteca, 2.4.1)

Un visitatore di Argo vissuto agli inizi del II secolo d.C. raccontò che,

tra gli altri monumenti che in Argo sono notevoli c'è una struttura sotterranea sulla quale stava quella stanza di bronzo che Acrisio aveva fatto costruire per custodirvi la figlia e che Perilao, quando fu tiranno, fece distruggere.
(Pausania, Viaggio in Grecia, 2.23.7)

Prima di scomparire per sempre tuttavia, questa prematura tomba metallica fece in tempo a sorvegliare l'innocente Danae per alcuni anni. La principessa non ricevette nessuna spiegazione quando un giorno si vide condurre da uno dei servi in quel posto sconosciuto, perfettamente ermetico; riceveva soltanto la visita quotidiana della nutrice per il breve tempo del pasto; ma per il resto giaceva immersa nella più totale oscurità accompagnata dall'acustica compressa dell'eco del suo pianto; Danae si sforzava di comprendere il motivo di una simile azione ma inutilmente, ed era ben lungi dall'immaginare che così facendo il padre intendeva evitare che la figlia procreasse. Aveva solo potuto constatare che Acrisio dal giorno in cui era tornato da Delfi non era più lo stesso. Diverse volte aveva tentato un dialogo con lui per capire cosa gli stava succedendo, ma il re non concedeva dichiarazioni seppur tuttavia la invitasse a non stare in apprensione. Laggiù, al posto del sole, era la somministrazione del pasto che scandiva il trascorrere del tempo. Ma una notte, o forse un giorno chi lo sa, Danae fu sorpresa da un luccichio crescente che proveniva dal soffitto. D'istinto pensò che la sua reclusione fosse finita e finalmente qualcuno stesse aprendo la botola per liberarla; ma subito dopo si accorse che non era luce quella che filtrava, bensì pioggia! Una fitta pioggia si stava riversando su di lei. Come poteva mai piovere in una camera ricoperta dal corpo freddo della terra? Ma quasi non finì la domanda che i suoi occhi, ormai disabituati al chiaro, furono rapiti da una magia di luci ambrate che per un gioco di riflessi venivano sprigionate dalle pareti di bronzo, mentre la pioggia si rivelò essere acqua d'oro che la investiva copiosa. La gelida dimora si trasformò in un ambiente caldo e confortevole.

Non umana esperienza era quella, ma solo un dio poteva compiere opere simili, e Danae lo sapeva. Questo dio non poteva che essere il dio della pioggia, colui che manda i cieli in mille pezzi col fragore dei tuoni e lo crepa con guizzi di luce: questo dio non poteva che essere Zeus! In questo modo il signore degli dèi scelse di manifestarsi alla figlia del re di Argo; con la sua luce le diede calore, con la sua pioggia aurei baci.

Sofocle, uno dei massimi tragici greci dedicò attraverso le voci del coro della sua Antigone, versi solenni al momento che Zeus aveva stabilito:

Anche Danae soffrì
di lasciare la luce del cielo,
chiusa entro cella di bronzo,
prigioniera di sepolcrale talamo.
E pur era d'onorata progenie,
o figlia o figlia,
e in grembo serbava
il rampollo di Zeus,
che pioggia d'oro fecondò.
(Sofocle, Antigone, 944-950)

Proprio così: il dio delle nubi lasciò Danae col battito di una nuova vita. E a tempo debito nacque il bambino che non doveva nascere.

Perseo era il suo nome e con la complicità della nutrice, Danae lo allevò, compensando con la voce e il calore del proprio corpo le tenebre che li avvolgevano. Così il piccolo crebbe senza timori, rassicurato dalla presenza della madre e dal privilegio di essere un figlio divino.