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FRECCIA

Sagitta, Sagittae

Sge

 

02 - Freccia (mito)

La costellazione della Freccia nell'Uranographia di Hevelius (1690).     
Immagine: http://www.atlascoelestis.com 


Le quattro stelle della piccola costellazione della Freccia appaiono quasi inosservate fra i giganti del Cigno con la splendente Deneb e dell’Aquila, maestosa con la sua Altair. La Via Lattea oltretutto la attraversa in pieno rendendo così la costellazione ancora più evanescente; eppure la Freccia chiude in sé un potere straordinario. Il dardo di cui si parla non è un dardo qualunque. Esso fu scoccato nel vasto cielo del Caucaso da Eracle. Ma non solo: ogni freccia della faretra dell’eroe era impregnata del sangue mortale dell’Idra di Lerna, dopo che egli la uccise nella sua seconda impresa. Il sangue dell’Idra non lasciava scampo, per cui se anche il colpo inferto dalla freccia non minacciava la vita, la si perdeva comunque per il siero che entrava in corpo. A perire per mano di Eracle, figura di stelle a nord-ovest della Freccia, fu l’Aquila che infatti nel cielo si trova proprio al di sotto dello strale, segno che è già stata colpita, sta precipitando, attesa dall’Ade profondo. Qual è la storia di cui il cielo notturno ci mostra soltanto l’epilogo? E’ la storia di Prometeo, il Titano che più di ogni altro dio amò la razza umana, in alcune versioni fu lui stesso a crearla. Egli amò gli uomini a tal punto che per loro venne punito da Zeus, da poco succeduto a Crono e quindi nuovo sovrano dell’universo.
 
La stirpe di uomini per cui il Titano, figlio di Giapeto e di Climene si prodigò, fu quella di bronzo, nata dai frassini, dunque di dura cervice e in più violenta. Dopo l’età dell’oro quando gli uomini, sotto il regno di Crono, vivevano senza affanno e senza invecchiare e morivano semplicemente addormentandosi, la nuova generazione inaugurata sotto lo scettro di Zeus fu degradata. Era la stirpe d’argento, creature mortali che conservavano la purezza dei loro antenati per i primi cento anni di vita, ma poi diventavano corrotte e incuranti degli dèi. Zeus le fece perire e al loro posto fece sorgere la stirpe di bronzo, ancora più degradata affinché la differenza fra i mortali e gli immortali fosse sempre più evidente e l’uomo dinanzi agli dèi si sentisse un nulla.

Prometeo soffriva terribilmente al vedere degli innocenti soggiacere a una decisione tanto crudele. Il solo fatto che l’uomo fosse destinato alla morte, glielo rendeva caro più di qualsiasi altro essere, tanto che per non lasciarlo nella condizione di miseria in cui Zeus l’aveva concepito, il Titano gli insegnò diverse arti, dalla costruzione della casa, alla scrittura, al calcolo, alla mantica. Non di meno, gli fece dono del fuoco.

Un giorno però avvenne una disputa fra i mortali, elevati e istruiti da Prometeo, e gli immortali dell’Olimpo. Il Titano volle risolvere il diverbio, di cui però non sappiamo i dettagli, spartendo un grosso bue per i due contendenti. Da un lato chiuse nella pelle dell’animale la parte buona rappresentata dalla carne, dall’altro avvolse nel grasso tutte quante le ossa. Chiese poi a Zeus di scegliere quale porzione desiderava tenere per sé e per gli dèi. Per esclusione, l’altra sarebbe toccata agli uomini. Il signore del tuono affondò le mani nel grasso e con amara sorpresa urtò contro la durezza delle ossa: aveva così riservato per il mondo divino lo scarto. L’ira che si accese nel cuore di Zeus fu incontenibile e da quell’animo avvelenato scaturì una vendetta che egli riversò sull’uomo: l’avrebbe privato per sempre del prezioso fuoco.

Gli uomini non potevano più cuocere il cibo e molti di loro non sopravvivessero alla rigidità dell’inverno. Da qualche luogo della terra, Prometeo vedeva tutto questo e angosciato meditava dentro di sé come porvi rimedio. Sapeva che Zeus non sarebbe sceso a patti, così decise di recarsi di nascosto sulle vette olimpiche e di carpire personalmente una scintilla di luce al sovrano divino, approfittando di un suo momento di riposo. Detto fatto: il fuoco fu di nuovo nelle mani dell’uomo e ovunque egli fosse, era possibile vedere dei piccoli falò all’ora dei pasti o nei giorni freddi per scaldarsi o quando il sole tramontava per illuminare la notte. Quando Zeus scoprì le fiammelle dall’alto dell’Olimpo, intuì subito che dietro c’era lo zampino di Prometeo. Senza attendere oltre, si scagliò su entrambi, punendo l’uomo con la creazione della prima donna, Pandora la quale togliendo il coperchio al grande vaso che portava con sé, permise ai mali di uscire e di diffondersi nel mondo, e sottoponendo invece Prometeo a una tortura inestinguibile. Il Titano fu portato in Scizia, l’estremità orientale del mondo allora conosciuto, e incatenato a una roccia dell’imponente Caucaso. Lì Zeus inviava ogni giorno al sorgere del sole, la sua aquila affinché gli divorasse il fegato, quel fegato che la notte, essendo la vittima immortale, ricresceva.

 

Ho offerto privilegi ai viventi ed eccomi,

soffro sotto le stanghe questa stretta fatale.

Quel giorno, a colmare uno stelo di canna,

intrappolo di frodo lo zampillo del fuoco.

Esso riluce, da allora, tra gli uomini, artefice,

strada maestra d’ogni mestiere ingegnoso.

Fu questo il peccato: ora ne sconto il castigo,

qui, perso nel cielo, trafitto nei ceppi.

(Eschilo, Prometeo incatenato, 107-113)

 

I giorni trascorsero e divennero settimane e le settimane mesi e i mesi anni. Ogni alba portava con sé insieme alla grande palla di fuoco anche il grido dell’aquila che, puntuale, si presentava al cospetto di Prometeo. Questi tuttavia custodiva un segreto la cui rivelazione avrebbe potuto rappresentare per lui la salvezza: il Titano sapeva che il regno di Zeus era in pericolo e sapeva anche come sarebbe avvenuta la sua detronizzazione.

 

Con tutto il suo amore di sé, Zeus precipita in basso,

col tempo. Pensa, che nozze prepara.

Nozze capaci di farlo sparire, crollato dal soglio imperiale.

Quel giorno avrà pieno vigore la minaccia rabbiosa che Crono, s

uo padre, gl’imprecava piombando dall’antico potere.

Gravoso futuro: dei celesti, nessuno potrà offrirgli

la chiara visione di come stornarlo. Io solo!

(Eschilo, Prometeo incatenato, 908-915)

 

Se Zeus si fosse unito alla Nereide Temi, sarebbe nato un figlio che lo avrebbe spodestato, esattamente come lui aveva fatto con suo padre Crono. Prometeo propose a Zeus di svelargli il segreto in cambio della liberazione. Ma il sovrano degli dèi, pensando a un ennesimo inganno dell’astuto Titano, rifiutò la proposta. Il ricatto però non era l’unica via d’uscita che Prometeo aveva per porre fine al suo strazio e lo sapeva. Infatti, se anche Zeus gli aveva negato la libertà, presto essa sarebbe giunta per altra mano. Parlando dei discendenti di Ipermestra e Linceo, il Titano annunciò come sarebbe avvenuta la sua salvezza.

 

Da questa semenza sorgerà tempra d’eroe,

destinato a brillare per l’arco:

lui mi salverà da questo patire!

Così suona il presagio che mi narrò

la millenaria madre, la Titanide Temi.

(Eschilo, Prometeo incatenato, 870-874)

 

L’eroe destinato a brillare per l’arco era Eracle, figlio di Zeus e di Alcmena, regina d’Argo. Il principe era di ritorno dall’undicesima fatica, quella dei pomi delle Esperidi. Aveva già incontrato Prometeo nel viaggio di andata poiché si era perso, e fu il Titano a indicargli la via per raggiungere il confine opposto del mondo. Eracle gli promise che dopo aver ucciso il drago a guardia delle mele d’oro, sarebbe ripassato da lui per dargli la lieta notizia. Quando giunse di nuovo in Scizia e si imbatté nel corpo gigantesco di Prometeo, rimase turbato alla visione del rapace che smembrava il fianco del Titano a colpi di becco. La prima volta che lo incontrò, era notte e non vide la tortura in atto. Quante ingiustizie aveva anch’egli dovuto sopportare per l’odio che Era gli portava? Quante prove, quanta sofferenza, quanta paura per l’irragionevolezza di una dea? E ora sapeva di avere dinanzi un innocente che scontava una pena crudele per lo stesso motivo: non lo poteva permettere. Estrasse dalla faretra una delle frecce esiziali e la caricò nell’arco, lo tese verso il cielo e, calcolata la parabola che avrebbe percorso il dardo, vibrò un colpo deciso. Lo strale andò a conficcarsi in modo perfetto nel corpo dell’aquila; un grido acuto si levò fra le montagne e il predatore alato lasciò la vita.

Prometeo fu finalmente libero e gli antichi mitografi un giorno ricordarono l’episodio nelle loro opere, permettendo anche a noi di conoscere la storia che lega le costellazioni di Ercole, della Freccia e dell’Aquila.

 

Con acqua e terra, Prometeo plasmò gli uomini e donò loro il fuoco che celò in una ferula, di nascosto da Zeus. Quando lo venne a sapere, Zeus ordinò a Efesto di inchiodare il corpo di Prometeo sul Caucaso, che è un monte della Scizia. Per molti anni Prometeo rimase inchiodato al monte e ogni giorno un’aquila volava a divorargli i lobi del fegato, che ricresceva durante la notte. Per il furto del fuoco Prometeo ebbe dunque questa punizione, fino a che Eracle, più tardi lo liberò.

(Apollodoro, Biblioteca, I, 7, 1)

 

Quanto alla freccia che stroncò la vita all’aquila di Zeus, il signore degli dèi la pose anch’essa fra le stelle; non certo per glorificarla, ma per ricordare il sacrificio cui fu sottoposto il suo animale sacro. La costellazione della Freccia infatti è poco luminosa, come è comprensibile potesse concepirla colui che alla fine ne fu vittima indiretta.

L’episodio della liberazione di Prometeo e dunque dell’uccisione dell’aquila di Zeus, ha trovato spazio nell’arte così come gli altri fatti salienti della vita del Titano.

Una coppa attica usata per bere il vino, appartenente alla tipologia morfologica detta skyphos, riporta proprio il momento in cui l’aquila viene trafitta.

 

02 - Freccia (mito)

Skyphos attica del Pittore di Nettos raffigurante l'aquila trafitta dalla freccia scoccata da Eracle (VII-VI secolo a.C., Museo Archeologico di Atene).     
Immagine: http://www.theoi.com/Gallery/T21.5.html

 

A sinistra Eracle, poggiato su un ginocchio, impugna l’arco col quale ha appena scoccato due frecce contro il fedele alato di Zeus. Una sola si è conficcata, proprio fra gli occhi e il becco. Quest’ultimo è aperto, stavolta non per divorare il fegato di Prometeo ma per il dolore della ferita. Il sangue dell’idra si sta diffondendo nel corpo piumato e presto il predatore scenderà per sempre nella dimora di Ade.
 
Al centro del dipinto vi è Prometeo, anch’egli inchinato per esigenze di spazio, i polsi sono legati dietro la schiena e accanto si vede la colonna che lo imprigionò per tanto tempo. Questo reperto è molto antico, risale al 625-575 a.C., quando l’arte greca era nel suo periodo detto arcaico e usava dipingere a figure nere. Proviene dall’Attica, la regione di Atene ed è attribuito al Pittore di Nettos. Il Museo Archeologico della capitale greca lo custodisce.

A tempi decisamente più vicini a noi è invece la tavola uranografica di Hevelius dedicata alla costellazione della Freccia (a inizio pagina). L’astronomo polacco in realtà riunì nella stessa lastra tre costellazioni, per via della loro contiguità e delle ridotte dimensioni. Oltre alla Freccia, sono messe in risalto il Delfino e il Cavallino. Il prestigioso atlante celeste fu pubblicato postumo nel 1690 a Danzica.
 
Sul finire del XIX secolo invece, nel 1878, a Oldenburg in Germania, furono terminati i dipinti del soffitto sovrastante la grande scala dell’Augusteum, dedicati al ciclo di Prometeo. L’Augusteum fu il primo museo d’arte della città e artefice delle pitture mitologiche fu Christian Griepenkerl, Professore all’Accademia delle Belle Arti di Vienna. Delle quattro opere dedicate a Prometeo, una rappresenta la liberazione del Titano da parte di Eracle.

 

02 - Freccia (mito)

Christian Griepenkerl, Il furto del fuoco (1878, Oldenburg).

 

Sulla sommità della vetta del Caucaso si vede giungere come un salvatore l’eroe dalla pelle di leone. E’ munito di arco e ha appena ucciso l’aquila che giace riversa ai piedi di Prometeo. Egli tende la mano e Prometeo risponde allungandogli il braccio incatenato nel polso. La ferita è ancora fresca e ogni arto è serrato in lacci d’acciaio, ma la tortura è finita e la libertà è giunta.

 

 

 

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