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LIRA

Lyra, Lyrae

Lyr

 

 

02 - Lira (mito)

La costellazione della Lira nell'Uranographia di Hevelius (1690).
Immagine: http://www.atlascoelestis.com

 

Ogni estate il cielo notturno ospita nel suo ampio grembo un antichissimo strumento musicale. E’ una lira, costituita da uno sparuto gruppo di stelle, ben raccolte fra loro a formare una figura piccola se confrontata con le costellazioni cui è vicina. Ma chi conosce la storia, sa che dalla lira di stelle escono davvero note celesti, quali mai orecchio umano ha sentito.
Questa lira infatti ha conosciuto il tocco di colui che, attraverso la sua musica soave e la sua voce di miele, aveva il potere di portare la pace in tutte le creature, di commuovere gli animi più irriducibili, di accostare senza pericolo le belve agli animali mansueti, di vincere (quasi) la morte.
Questa è la sua storia.

In una terra lontana, al di là del monte Olimpo, dove il suolo da greco diventa macedone, ci fu un tempo in cui succedevano cose prodigiose. Accadeva nella terra delle Muse, nove dee custodi delle arti e delle scienze; Pieria è il nome di quella regione molto esigua che dietro le pianeggianti zone costiere, innalza uno scenario di montagne scoscese, impreziosite dal verde di un ricco manto di abeti, faggi, olmi, larici.
Il prodigio consisteva nel fatto che vi erano giorni in cui il paesaggio mutava completamente aspetto.
Il terreno d’improvviso cominciava a vacillare fino a creparsi in ogni sua parte; erano le radici degli alberi che prendevano vita e uscivano dalla terra per fare ciò che mai a un albero si è visto fare: camminare! Proprio così, uno dopo l’altro animandosi, un corteo di giganti di legno avanzava, spolverando l’azzurro col verde delle chiome ampie, barcollanti da una parte all’altra per ognuno di quei passi fragorosi e impacciati. Andavano tutti nella stessa direzione, come se seguissero un richiamo.
Ma non erano i soli. Anche gli animali erano attirati da quell’invito ipnotico; dal più piccolo al più grande, dal più docile al più feroce, con le zampe o con le ali, tutti quanti correvano o volavano verso lo stesso punto, superando le piante, goffe e lente nella loro andatura.
Il vento trasportava nell’aria il profumo umido dei boschi insieme a una musica arpeggiata, accompagnata da una voce a cui era impossibile resistere. Bisognava trovarla e fermarsi lì, in ascolto, perché nulla dava più pace di quelle corde pizzicate e di quel canto mite.
E finalmente, il variegato corteo giungeva alla misteriosa destinazione ed era possibile vedere le creature del bosco raccolte attorno a un ragazzo, solo.
Alto e asciutto, dalla carnagione esangue, indossava una tunica nera che enfatizzava ancor di più il colore diafano della pelle.
A volte lo si trovava seduto sopra un masso, a volte appoggiato a un tronco, altre volte a gambe incrociate sui prati e, senza quasi accorgersi degli spettatori presenti, cantava, gli occhi chiusi e nelle mani una lira dal suono ammaliante. A volte era di giorno, a volte sotto la notte stellata.
La sua aria tenebrosa incuteva rispetto ma non timore, perché la sua anima era completamente persa nella beatitudine delle note che creava. Eppure la figura del ragazzo aveva qualcosa di maledetto.

La lira che pizzicava non era una lira qualunque: aveva origini antiche e divine. Era stata di Ermes, “il dio dagli oscuri pensieri” come lo chiamavano gli aedi; fu lui a inventarla quando da bambino, imbattendosi in una tartaruga, scorse in essa uno strumento sonoro prima che un animale.

Salve, graziosa danzatrice, compagna del banchetto:
sono contento di vederti. Ma come mai, tu che vivi sui monti,
hai indosso questo splendido guscio screziato?
Ora ti prendo e ti porto in casa. Non ti lascio andare:
mi servi, sarai la mia prima vittoria.
Meglio tornare dentro: ci sono pericoli fuori.
Da viva saresti una protezione contro i sortilegi
funesti: da morta intonerai un canto stupendo.
(Inni Omerici, IV, A Ermes, 31-38)

Senza esitare, trasformò il guscio in una cassa armonica e, in onore delle sette figlie di Atlante, una delle quali era sua madre, vi applicò sette corde di minugia di pecora.
Ed ecco che da quella creazione uscì un suono mai udito prima, essenziale e pieno insieme.
Qualche tempo dopo il piccolo Ermes, per farsi perdonare da Apollo al quale poco tempo prima aveva rubato le vacche sacre, gli regalò la lira. Apollo rimase incantato dalla sonorità sublime prodotta dallo strumento a lui sconosciuto e non esitò a perdonare il nipote di Atlante.

E’ nuova infatti la musica straordinaria che odo:
sono certo che non la conosce nessun uomo
né alcuno degli dèi che abitano le case dell’Olimpo,
all’infuori di te, furfante, figlio di Zeus e di Maia.
Che arte è questa che consola affanni infiniti? Come
la si pratica? Vedo bene che conduce a tutti e tre
gli obiettivi: la gioia, l’amore e il dolce sonno.
(Inni Omerici, IV, A Ermes, 443-449)

Fu così che Apollo abbandonò la cetra che lo aveva accompagnato fino a quel momento, per intonare le sue melodie con la lira.
Infine il dio della musica la regalò a Orfeo quando era ancora in fasce. Da un bambino l’aveva ricevuta e a un bambino la donò. Probabilmente fu il suo modo di rendere omaggio a Calliope, la musa dell’epica e del canto, per la nascita del figlio che ebbe da Eagro, il sovrano della lontana e gelida Tracia.
Dal padre, Orfeo prese il carattere appartato come indica il nome del re che significa cacciatore solitario, mentre dalla madre ereditò la straordinaria inclinazione per l’arte delle note.
Così viveva Orfeo: della sua voce e della sua lira, delle sue canzoni udite solo dalle querce, dai fili d’erba e dai pettirossi, dai gigli, dai leoni, dalla pioggia. Il suo era un pubblico del tutto speciale, un pubblico che solo lui sapeva fondere in un’armonia impossibile alla natura; pur di ascoltare infatti, il lupo si accovacciava accanto alla pecora e nessuna traccia dell’istinto predatore era presente nei suoi occhi; allo stesso modo la pecora non serbava alcun timore per la belva che respirava a meno di un passo di distanza.
E per nulla Orfeo era preoccupato della vicinanza delle fiere, perché tutto era così magicamente sospeso tra la realtà e l’illusione che c’era posto solo per la pace. Fra tutti.

Ma la soavità che Orfeo sapeva creare nei boschi delle Muse, non sarebbe stata perfetta senza la presenza di un amore.
I poeti che hanno tramandato il mito non lo dicono esplicitamente, ma evidentemente un giorno si addentrò in quelle foreste portentose una giovane donna. Non sappiamo se si fosse persa o se avesse seguito incuriosita gli animali attirati dal canto di Orfeo, ma sappiamo che era straordinariamente bella e che si chiamava Euridice.
Euridice si innamorò della voce del ragazzo color di neve e delle sue labbra stillanti versi.
Orfeo invece, come la vide, sentì di essere dinanzi alla poesia che non aveva ancora conosciuto, al canto che non aveva ancora intonato e fu preso dal desiderio di averla accanto a sé per tutti i giorni della sua vita. La prese in moglie.
Lontani dal rumore dei villaggi, Orfeo ed Euridice erano l’anima segreta dei boschi della Pieria.

Ma un giorno il loro sogno fu spezzato.
Un figlio di Apollo fece irruzione nella loro vita con la velocità di una saetta, sconvolgendola. Si chiamava Aristeo e sua madre era la ninfa Cirene. Aristeo era un allevatore di api, il migliore come dice il suo nome che letteralmente significa dio ottimo, dal greco áristos, ottimo e theós, dio; fu lui infatti che insegnò per primo l’arte dell’apicoltura.
Aristeo divenne immortale quando Ermes lo affidò appena nato a Gea e alle divine Ore; le dee cosparsero le labbra del piccolo di nettare e ambrosia, il cibo degli dèi, a sua volta prodotto dalle api, di cui tanta cura avrebbe avuto da grande.
Ma Aristeo era considerato ottimo anche in quanto eccellente custode di greggi, come lo era sua madre.
Fu sicuramente in veste di pastore che si trovò nei boschi sacri alle Muse e conobbe la bellezza di Euridice. La ragazza era sola quando si imbatté nella figura possente di Aristeo. Le intenzioni dell’uomo furono subito chiare e la sposa di Orfeo iniziò a correre più veloce che poté lungo la riva del fiume Peneo.
Aristeo la inseguì ma quando la raggiunse, una dolorosa sorpresa lo attese: la ragazza giaceva sull’erba, priva di vita. La caviglia portava il segno inconfondibile del morso di un serpente. La sua folle corsa per rifugiarsi da Orfeo era finita così.
All’improvviso i boschi si riempirono di lamenti, un susseguirsi di voci femminili piangenti si propagò tra le querce e i lecci e lungo i sentieri, fino a quando raggiunsero Orfeo che, per la prima volta, interruppe la sua canzone. Riconobbe il pianto delle ninfe, inseparabili compagne di Euridice e, allarmato, si gettò alla ricerca dell’amata.
La sua corsa sembrava non avere mai fine ma poi, giunto nei pressi del fiume, si arrestò dinanzi a ciò che non avrebbe mai voluto vedere: Euridice a terra su un fianco, la bocca semichiusa e lo sguardo immobile nel vuoto. Solamente le vesti si muovevano al tocco del vento, ma lei no… Euridice non c’era più. Mentre il sudore si formava copioso sul corpo del cantore, lo sgomento gli gelò le viscere. Orfeo iniziò a tremare febbrilmente e infine, vinto dalla disperazione, si gettò sulla compagna e pianse.
Di Aristeo non v’era traccia, così che mai il figlio di Calliope sospettò per la fine di Euridice un motivo diverso dalla tragica fatalità.
Trascorsero i giorni. Silenziosi. Mai ci fu tanto silenzio là dove tutto era destinato al ristoro dell’anima attraverso la musica. Orfeo non trovava pace, non riusciva a rassegnarsi ad aver perso la sua sposa per sempre.
La immaginava al cospetto dei sovrani degli inferi, dinanzi ad Ade con la consorte Persefone.
Ma proprio questo pensiero gli fece venire un’idea. “Se il mio canto ha il dono di ammansire le fiere e di animare gli alberi, – rifletté Orfeo – indurrà anche gli dèi dell’oltretomba a restituirmi Euridice!”.
Il piano gli diede nuova speranza ed egli si accinse così a compiere la sua impresa più ardua.
Mentre faceva questi ragionamenti, si ricordò di quando anni prima, si diresse verso la Colchide sulla nave Argo, insieme a Giasone e ad altri cinquanta eroi alla conquista del vello d’oro tolto all’ariete volante, e durante il viaggio passarono vicino all’isola delle Sirene. All’udire il canto delle creature dalle voci languide, i suoi compagni smisero di remare e implorarono di fermarsi lì, con loro e per sempre. Orfeo sapeva che se cedevano avrebbero perso la vita e con fare intrepido prese la lira e sfidò le Sirene. La purezza con cui generava le note vinse il coro mendace e gli Argonauti furono salvi.
Ma adesso quell’impresa gli sembrava una sciocchezza in confronto a ciò che l’attendeva.

Fattosi coraggio, si recò all’ingresso della dimora senza ritorno e lo varcò.
La luce venne meno velocemente e le tenebre lo avvolsero così dense che la testa prese a girargli e gli sembrò di soffocare. Il gelo della morte si depositò fin sulle ossa.
Procedette tastoni lungo un percorso deformato, fatto di cunicoli in costante discesa, temendo a ogni passo di cadere e scivolare giù rovinosamente. Poi finalmente vide in lontananza l’agitarsi tremulo di una moltitudine di fiaccole fissate a cupe pareti rocciose, mentre appena più in basso fluttuavano i luccichii in cui si scomponevano i loro riflessi. Era l’acqua morta dello Stige e sopra, per il breve tratto che separava le due rive, scorreva assiduamente una barca dal legno gemente. Su di essa, in piedi stava un uomo corpulento, forte nelle braccia, che affondava lunghe remate nel fiume. Era Caronte, il traghettatore degli uomini divenuti ombre.
Orfeo, il ragazzo dalla pelle cadaverica, non dovette faticare per ottenere un passaggio verso l’altra sponda e, sceso dall’imbarcazione, seguì il percorso che lo condusse dinanzi alla coppia infernale.

I coniugi reali sedevano insieme su una kline, il letto usato nei banchetti, al centro di un antro spettrale.
Il figlio di Calliope osservò le due figure sotterranee e che i vivi potevano solo immaginare. Ade, sebbene seduto, era di statura imponente e il corpo era ancora colmo di forza nonostante da tempo non fosse nel fiore degli anni; lo sguardo severo e il volto incorniciato dalla barba ben curata invece, acuivano la sua solennità. Il vincolo fraterno con Zeus era evidente e, se non fosse stato per il luogo viscerale in cui ci si trovava, si sarebbe creduto di essere dinanzi al dio dell’Olimpo.
Lei, Persefone, gli sedeva accanto. Indossava una tunica bianca legata in vita, mentre un ampio scialle drappeggiato le copriva le spalle scendendole sulle braccia. La veste lasciava intuire un corpo sinuoso da cui scaturivano grazia e fierezza. Bastava guardarla negli occhi per capirlo. Aveva uno sguardo intenso, impreziosito dall’acconciatura raccolta, che le lasciava libero il viso luminoso.
Un osservatore accorto tuttavia coglieva un fondo di tristezza nell’animo della regina. Non v’era dubbio che nonostante il titolo, era Ade che comandava. Persefone era solo la sua donna, la vergine che aveva strappato alla terra primaverile con l’ardore della sua brama, incurante del fatto che fosse la figlia di Demetra, la dea dei campi, simbolo della vita. A ben vedere l’involontaria sovrana del mondo sepolto, teneva un atteggiamento remissivo nei confronti di Ade.
Orfeo, sensibile qual era, comprese subito i sentimenti che serbava nel cuore Persefone e, avvicinatosi ai sovrani, li guardò negli occhi, prima Ade e poi la regina.
Tenendo lo sguardo posato su di lei, portò la lira davanti al petto madido e con le dita pronte a far vibrare le corde, liberò le prime, struggenti note.
La voce si aggiunse a esse come le stelle al calar della sera, e mai si udirono là sotto parole tanto sincere e appassionate.

Avrei voluto poter sopportare, e non posso dire di non aver tentato.
Ma Amore ha vinto! E’ questo un dio ben noto lassù, sulla terra;
se anche qui, non so, ma spero di sì; e se non è menzogna
quanto si narra di un antico ratto, anche voi foste uniti da Amore.
Per questi luoghi paurosi,
per i silenzi di questo immenso regno dell’abisso, vi prego,
ritessete il filo prematuramente spezzato della vita di Euridice!
Tutti quanti vi spettiamo di diritto e dopo un breve soggiorno di sopra,
presto o tardi ci affrettiamo verso questa sede, che è la stessa per tutti.
Qui tutti siamo diretti, questa è l’ultima nostra dimora,
e il vostro dominio sul genere umano non ha poi più fine.
Anche costei sarà vostra quando avrà compiuto fino in fondo il giusto percorso della sua vita:
vi prego solo di ridarmela in prestito.
Ma se il destino mi nega questa grazia per la mia consorte,
io non voglio riandarmene, no. Così godrete della morte di due!
(Ovidio, Metamorfosi, X, 25-39)

Nessuno poté trattenersi dal commuoversi, né le ombre fumose, né l’inflessibile Ade, men che meno Persefone.
Fu così che, come accadeva nei boschi della terra di Pieria, anche lì tutto mutò e per una volta regnò la pace.

Dai luoghi più profondi dell’Erebo,
commosse dal suo canto,
venivano leggere
le ombre, immagini opache dei morti:
a migliaia,
come si posano gli uccelli tra le foglie,
quando la sera o la pioggia d’inverno
dai monti li allontana;
donne, uomini, e ormai privi di vita,
corpi di eroi generosi,
e bambini, fanciulle senza amore
e giovani arsi sul rogo
davanti ai genitori:
ora il fango nero, il canneto orrendo del Cocito
e una palude ripugnante
con le sue acque pigre li circonda
e con nove giri lo Stige li rinserra.
Sino al cuore del Tartaro,
alle dimore della morte,
sino alle Eumenidi
dai capelli intrecciati con livide serpi
dilagò lo stupore;
muto con le tre bocche spalancate
rimase Cerbero
e insieme al vento
si arrestò la ruota di Issione.
(Virgilio, Georgiche, IV, 478-503)

Al termine del canto, Ade guardò Persefone e con un cenno del capo le fece segno di chiamare Euridice.
Persefone, con le guance ancora rigate dalle lacrime, pronunciò a voce alta il nome della sposa di Orfeo e l’invitò ad avvicinarsi. Da un lato dell’antro reale, apparve il dolce profilo di Euridice. Alla vista di lei, il cuore di Orfeo accelerò violento, mentre Euridice avanzò lentamente per via della ferita, e con lo sguardo basso in segno di sottomissione, attese gli ordini.
La regina rimase in silenzio qualche istante a osservarla poi, piena di tenerezza, le concesse il ritorno nel mondo dei vivi. “Ma a una condizione” – aggiunse con voce perentoria volgendosi a Orfeo – “Non dovrai voltarti. Mai! Non prima di aver raggiunto l’uscita del Tartaro. Solo allora, e non prima, potrai volgerti indietro verso la tua sposa. Se contravverrai all’ordine anche una volta soltanto, l’avrai persa. Per sempre”.
Orfeo si aprì in un sorriso che sciolse tutte le tensioni e con gli occhi lucidi, ringraziò i sovrani e si congedò.
Poi, dopo aver lanciato uno sguardo intenso, ebbro di felicità, alla sua Euridice, la prese per mano e si avviò con lei sulla via del ritorno.
Ripercorse tutti i sentieri contorti del regno maledetto, fiducioso di averla al seguito anche quando l’esile mano non era più nella sua, e la paura che ebbe all’andata, lo abbandonò.
I due amanti, in fila, arrivarono da Caronte che per la prima volta traghettò un’anima in senso contrario, e anche allora Orfeo non si voltò. Non dubitava della parola di Persefone, neanche quando la luce delle fiaccole scomparve e le tenebre inghiottirono tutto nel loro stomaco insaziabile. Di nuovo Orfeo, all’immergersi in tanto buio, provò la sensazione di vertigine che lo colse quando entrò, ma non cedette e, seppur faticosamente, risalì i cunicoli che portavano a rivedere l’azzurro del cielo. Euridice era sicuramente dietro di lui. Oppure no…?
Finalmente l’oscurità andò diradandosi. Stavano arrivando.

E ormai non erano lontani dalla superficie, quando, nel timore che lei riscomparisse,
e bramoso di rivederla, egli pieno d’amore si voltò.
E subito essa riscivolò indietro, e tendendo le braccia
cercò convulsamente di aggrapparsi a lui e di essere riafferrata,
ma null’altro strinse, infelice, che l’aria sfuggente.
(Ovidio, Metamorfosi, X, 55-59)

Ahimè, Orfeo,
chi ci ha perduti,
quale follia?
Senza pietà il destino indietro mi richiama
e un sonno vela di morte i miei occhi smarriti.
E ora addio: intorno una notte fonda mi assorbe
e a te, non più tua, inerti tendo le mani.
(Virgilio, Georgiche, IV, 494-498)

L’ordine di Persefone era stato violato.
Orfeo fissava sgomento l’ingresso degli inferi, incredulo dinanzi a quel che stava accadendo. Si portò una mano alla fronte in segno di disperazione e infine, mosso da un’ultima ostinata speranza, si lanciò di nuovo nella voragine fumosa correndo come un pazzo a riprendere Euridice.
Di nuovo ecco il buio pesto e il gelo della morte dentro le ossa, finché giunse alla riva dello Stige impaziente di scendere su quella opposta; ma Caronte stavolta gli impedì di salire sulla barca e, come una fiera molestata gli urlò di andarsene. A nulla servì implorarlo.
Era davvero finita. Tutto era stato vano.

Per sette giorni, tuttavia, rimase lì accasciato sulla riva,
senza toccare alcun dono di Cerere:
dolore, disperazione e lacrime furono suo unico cibo.
Poi, dopo avere inveito contro la crudeltà degli dèi dell’Erebo,
si ritirò sull’alto Ròdope e sull’Emo battuto dall’Aquilone.
(Ovidio, Metamorfosi, X, 73-77)

Il Ròdope e l’Emo sono montagne della Tracia. E quest’ultima era la terra di suo padre, Eagro.
Là, a centinaia di chilometri di distanza dal regno delle Muse, si ritirò Orfeo.
Là dove il vento soffiava gelido e il sole raramente si affacciava a scaldare il suolo, un oltretomba sotto il cielo anziché sotto la terra.
Là dove i paesaggi erano aspri, duri, di ghiaccio, come di ghiaccio era divenuta l’anima del poeta.
Per tre anni non toccò la lira e non cantò.
Chiuso nel suo mantello nero, vagava simile a uno spettro fra le rocce argentate del Ròdope, il corpo diafano come quello delle salme.

Per tutto questo tempo Orfeo era rifuggito da ogni contatto con le donne,
forse per il dispiacere che aveva provato, forse perché aveva fatto voto.
Eppure, molte ardevano dal desiderio di unirsi al poeta:
tutte si videro, con dolore, respingere.
Anzi, fu proprio lui che iniziò i popoli della Tracia a rivolgere l’amore
sui teneri maschi e a cogliere i primi fiori
di quella breve primavera che è l’adolescenza.
(Ovidio, Metamorfosi, X, 79-85)

Proprio così: non ci sarebbe stata una seconda donna a innamorare Orfeo. Soltanto Euridice era ammessa nel suo cuore. E un giorno il pensiero di lei si tramutò in canto.
Fu così che le corde della lira vibrarono di nuovo, liberando note che si intrecciavano con la voce del figlio della musa, che se ne stava solitario, al centro di un prato in cima a una collina; il vento che per caso investiva l’appassionata spirale di musica, la prendeva con sé trasportandola lontano.
Fin quando a un tratto si presentò lassù un corteo di giganti di legno e poi un gruppo di lupi, e usignoli e pecore a dozzine e scoiattoli, e ancora sassi improvvisamente capaci di rotolare senza che vi fossero discese.
Orfeo era tornato a domare il creato, anche se ferito per sempre.
Ma il senso di maledizione evocato dalla sua figura stava prendendo vita.

Era notte fonda quando nei boschi del Ròdope si udirono in lontananza suoni sconnessi di flauti, suoni esasperati, misti a cori sguaiati dalle voci acute. Erano donne. Le donne trace che celebravano Dioniso, il dio che carpisce i sensi col potere del vino e priva la mente della ragione. Seminude, con addosso pelli e teste di animali, gli offrivano l’anima e il corpo attraverso rituali dissoluti e brutali. Vagavano lungo i pendii notturni agitando tirsi e schiarendo via via stralci di bosco con torce crepitanti.
Verso l’alba danzavano ancora, i piedi nudi affondati nella rugiada che teneva ancora l’erba addormentata sotto di sé in attesa del sorgere del sole. Le baccanti erano capitate in cima a un colle, popolato da alberi che prima non c’erano. Al centro un ragazzo si stava guardando attorno svegliato dai flauti; accanto a lui, per terra, una lira di divina fattura.
Le donne lo riconobbero: era il cantore delle Pieria che le aveva rifiutate. La rabbia si riaccese dentro di loro in pochi istanti e nell’impeto della loro frenesia, raccolsero ognuna dei sassi, quegli stessi che si erano recati lì per ascoltare la dolce voce del figlio di Eagro e di Calliope. Cominciò una. Scagliò con forza la pietra contro Orfeo. Il cantore la schivò e guardò allibito colei che l’aveva lanciata come a chiederle perché. Sarebbe stata una bella donna, dagli occhi marroni e dai capelli color rame che le scendevano sino ai fianchi, ma adesso i suoi occhi erano spiritati e la massa fluente dei capelli era tutta scarmigliata; addosso aveva solo brandelli di pelle di cerbiatto e ansava di vendetta. Orfeo non fece in tempo a dirle niente che un altro sasso volò nell’aria e lo colpì al petto. Allora, dolorante, prese la lira e iniziò a cantare per chiamare la pace, mentre le seguaci di Dioniso, ancor più inviperite, aggredivano il canto battendo sui tamburelli e soffiando isteriche nei flauti; e mentre una suonava, un’altra gridando gli lanciava addosso il tirso. Il bastone centrò la bocca del poeta ma non lo ferì seriamente. Orfeo, seppur provato, continuò a cantare accompagnandosi con la lira.
Un’altra baccante sferrò il colpo tirando il sasso che teneva nel pugno,

ma questo, mentre ancora vola, rimane estasiato dai soavi concenti,
della voce e della lira, e gli cade dinanzi ai piedi,
quasi a chieder perdono di quell’ardire folle.
Ma ormai la sconsiderata battaglia cresce e divampa sfrenata,
impera la Furia impazzita.
In verità, tutte le armi avrebbero potuto essere ammansite col canto;
ma il gran clamore e i flauti berecinzii dalla canna storta,
e i tamburelli e i battimani e gli ululati bacchici
sommersero il suono della lira.
E così alla fine i sassi si arrossarono del sangue del poeta, che non si udiva più.
(Ovidio, Metamorfosi, XI, 10-19)

Ma le baccanti non erano ancora sazie. Inveirono ancora sul corpo di Orfeo come facevano quando uccidevano un animale; e così gli strapparono le braccia, le gambe, gli amputarono mani e piedi, gli mozzarono il capo, lo fecero in quanti più pezzi riuscirono. Infine, dispersero ovunque le membra innocenti.

Nel fiume Ebro finirono la testa e la lira, e mentre esse erravano lungo il silenzio della corrente, dallo strumento si levò una musica triste… poi la bocca si aprì e ne uscì la voce dolente del poeta.

“Euridice” chiamava, mentre l’anima fuggiva,
“o misera Euridice”.
E lungo tutto il fiume
le rive ripetevano “Euridice”.
(Virgilio, Georgiche, IV, 524-527)

Ma se questo accadeva sulla terra, nel regno di Ade Orfeo poteva finalmente ricongiungersi all’amata.
Il percorso che tanto aveva minacciato il suo corpo da vivo, adesso che era uno spirito, non era più pericoloso.

L’ombra di Orfeo discende sottoterra.
Egli riconosce uno per uno i luoghi che ha già visto una volta
e, cercandola per i campi delle anime pie, ritrova Euridice, e la abbraccia appassionatamente.
(Ovidio, Metamorfosi, XI, 61-63)

La storia di Orfeo doveva essere raccontata e ricordata da tutti: per questo Zeus volle scriverla nel cielo.

Le Muse raccolsero i suoi resti per dar loro sepoltura e posero la Lira, composta di stelle, nella volta celeste, come massima remunerazione e in sua memoria, per volontà di Apollo e di Giove; dal momento che Orfeo tributava grandi lodi ad Apollo e, per quanto riguarda Giove, egli volle così ricompensare sua figlia [Calliope].
(Hygino, Poeticon Astronomicon)


Se Giove ha voluto ricordare Orfeo ponendo la sua lira in cielo, tanti sono stati gli artisti che hanno voluto celebrarlo nelle loro opere. Dall’antica ceramica greca alla pittura e alla scultura, la galleria di immagini che ritrae il cantore e le sue vicende, costituirebbe di per sé quasi un museo.
La scelta che qui viene presentata non ha naturalmente la pretesa di essere esaustiva, ma vuol essere un assaggio del vasto repertorio e un piccolo viaggio in ordine cronologico fra grandi tributi artistici al mito di Orfeo.

Prima però inauguriamo la visita alle opere con quella a inizio pagina. Si tratta dall'Uranographia del 1690 firmata dall’astronomo polacco Johannes Hevelius (a inizio pagina). E’ la tavola dedicata alla costellazione della Lira che, come si vede, è tenuta da un’aquila. L’aquila è quella di Zeus, colui che ha voluto porre nel firmamento lo strumento nato dalla fantasia di Ermes, donato ad Apollo e infine ceduto al cantore per eccellenza, patrono degli aedi quale fu Omero.

Anche la Lira attraverso il cielo si scorge con i bracci
divaricati tra le stelle, con la quale una volta Orfeo catturava
tutto quello che con la sua musica raggiungesse, e volse il passo
perfino tra le anime dei trapassati e ruppe col canto le leggi d’abisso.
Donde la dignità del cielo e un potere simile a quel dell’origine:
allora alberi e rupi trascinava, ora di astri è guida
e attira dietro sé il cielo infinito dell’orbitante cosmo.
(Manilio, Poeticon Astronomicon, I, 324-330)

La seconda opera la troviamo al museo del Louvre dove è custodito un vaso della Grecia classica risalente alla prima metà del IV secolo a.C. (circa 470-450 a.C.). Si tratta di uno stamnos attico a figure rosse, ossia di un recipiente usato per il trasporto e la conservazione del vino. Proviene dall’Attica, la regione di Atene sede della migliore tradizione di pittura vascolare, ed è opera di un certo Hermonax. Come avviene anche oggi, i pittori firmavano il proprio lavoro e la ceramica greca in particolare portava sempre due firme, quella del vasaio e quella del pittore.

 

02 - Lira (mito)

Stamnos attico a figure rosse attribuito al pittore Hermonax raffigurante la morte di Orfeo a opera delle menadi (Louvre, 470-450 a.C.).
Immagine: http://art.rmngp.fr/fr/library/artworks/hermonax_stamnos-a-figures-rouges-mort-d-orphee-attaque-par-les-menades_ceramique-materiau


Lo stamnos del museo parigino è a figure rosse ossia, come dice il termine stesso, i personaggi e la scena sono di colore rosso su fondo nero.
Come si vede, è raffigurata l’uccisione di Orfeo a opera delle baccanti o menadi. Si notino i lividi sul corpo del poeta e il sangue che sgorga là dove la seguace di Bacco lo trafigge con una spada. L’utilizzo di quest’arma in realtà non è tipico delle menadi, che vengono generalmente rappresentate con in mano il tirso, il bastone sulla cui cima veniva sistemato un groviglio di pampini e di edera, come volevano i riti dionisiaci.
Anche gli abiti delle donne non sono quelli che vengono descritti nella letteratura, in cui sempre si parla di pelli di animali. In questo dipinto dunque è Orfeo il personaggio che meglio si riesce a identificare grazie alla lira che solleva con la mano sinistra. Il suo ferimento ne conferma univocamente l’identità, mentre per esclusione le donne rappresentate non possono che essere le baccanti. L’unico segno che le contraddistingue sono i punti – probabilmente tatuati – lungo le braccia che indicano la presenza di una figura selvaggia.
Per quanto riguarda i volti infine, balza sicuramente all’occhio la serenità delle espressioni, stridente col contesto truce. In realtà questo non deve destare meraviglia, perché i Greci volutamente rappresentavano tutti i loro personaggi imperturbabili spiritualmente, obbedendo all’ideale del kalòs kai agathòs, ossia del bello e buono.

Nel periodo barocco, che rappresenta per l’Olanda la propria età dell’oro nell’arte della pittura, Peter Paul Rubens dipinse Orfeo che si appresta a risalire in superficie con Euridice, subito dopo aver ottenuto il consenso di Ade e Persefone a riportarla in vita.

 

02 - Lira (mito)

Orfeo ed Euridice di Rubens (Museo del Prado, Madrid, 1635).

 

Il cantore è serio e guarda insieme alla sposa gli dèi dell’oltretomba che stanno discutendo fra loro. Probabilmente stanno decidendo la condizione alla quale Orfeo dovrà attenersi per riavere Euridice.
Lo scenario è fumoso e cocente quale è quello degli inferi secondo la tradizione cristiana e vi si può scorgere il cane Cerbero nell’angolo in basso a destra, mentre i personaggi, mostrano la tipica fisionomia che caratterizza Rubens: corpi maschili imponenti, voluminosi, opulenti, e forme femminili eccedenti, adipose, lontane dai canoni estetici sia odierni che dell’epoca greca. Del resto Rubens era il pittore dell’aristocrazia ed è facile immaginare che le famiglie, nobili e reali, presso cui lavorava fossero “benestanti” anche nella corporatura.
Il quadro fu dipinto nel 1635, cinque anni prima che morisse, quando si trovava a Madrid alla corte di Filippo IV ed è infatti conservato al museo Prado.

Con un salto temporale di circa un secolo e mezzo ci troviamo in pieno neoclassicismo con la splendida opera di uno dei suoi esponenti più validi, Antonio Canova. Nel 1776 l’artista veneziano scolpì due statue che oggi sono ospitate al museo Correr della sua città natale. Si tratta appunto di Orfeo ed Euridice, ritratti nell'istante in cui il cantore si è appena voltato e la sua sposa precipita di nuovo e per sempre nel regno dei morti.

 

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Il gruppo scultoreo di Orfeo ed Euridice, capolavoro di Antonio Canova (Salone da ballo del Museo Correr, Venezia, 1776).
Immagine: www.carteggiletterari.it


La potenza espressiva delle due sculture è senza pari: si osservi la disperazione del volto di Orfeo che, rivolto all’indietro verso la voragine da cui è appena uscito e con la mano sulla fronte, sembra ammettere la sua colpa e constatare l’irrimediabilità della sua azione, proprio a un passo dal trionfo.
Impeccabile poi è la resa dello sbilanciamento all’indietro di Euridice, il cui polso destro è afferrato e tirato da una mano che spunta da spirali di fumo modellate nel marmo. E’ la mano di Ade che uscendo dagli inferi, si riappropria della ragazza. Invano la giovane tende l’altra mano a Orfeo ma una dolorosa rassegnazione è impressa sul suo viso.

 

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Orfeo ed Euridice di Antonio Canova. Oltre alla disperazione di Orfeo resa in modo straordinario sul volto del cantore, si noti nella statua di Euridice, la mano di Ade che dal regno inferi, afferra il polso della giovane (Salone da ballo del Museo Correr, Venezia, 1776).
Immagine: http://maspo.altervista.org/orfedice.html

 

 

Nel 1861 un pittore francese che si pone a metà fra il naturalismo europeo secentesco e il nascente impressionismo, ci offre un’immagine di Orfeo ed Euridice intrisa di luce mattutina in un bosco ancora addormentato sotto la rugiada.
Si tratta di Jean-Baptiste Camille Corot, definito l’ultimo dei classici e il primo dei moderni. La sua formazione infatti fu di stampo neoclassico e pertanto, a differenza degli impressionisti puri, i suoi dipinti contemplano anche temi mitologici, inseriti però in uno scenario naturalistico che è ben più di un semplice sfondo, è esso stesso protagonista insieme ai protagonisti. In questo senso Corot è a tutti gli effetti un impressionista, tanto che a lui si ispireranno i grandi di questa corrente artistica come Monet, Renoir o Cézanne per citare i più noti.

 

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Nel suo dipinto Orfeo ed Euridice, Jean-Baptiste-Camille Corot ritrae Orfeo mentre conduce la sua amata fuori dall'Ade (Museum of Fine Arts, Houston, 1871).
Immagine: https://rozmilla.wordpress.com/2015/03/25/su-le-soglie-del-bosco/orfeo-ed-euridice-di-jean-baptiste-camille-corot-1871-museum-of-fine-arts-houston/

 

Il quadro qui descritto appartiene all’ultimo orientamento stilistico di Corot, il quale verso la fine degli anni 1840 frequentò pittori come Millet e Rousseau, impegnati a rappresentare la natura nei diversi momenti della giornata, interessati quindi a riprodurre le atmosfere create dalla luce sui paesaggi.
Corot si concentrò così su questo aspetto scenografico cogliendone le sue sfumature più delicate. La pittura si fa argentea e intensamente romantica come ben evidenzia il quadro di Orfeo ed Euridice.
Qui vediamo i due amanti camminare insieme molto probabilmente nell’oltretomba, visto che Orfeo conduce la sua sposa guardando avanti. E’ sicuramente un’interpretazione insolita del regno degli inferi, mai rappresentato come un luogo accogliente. Del resto, sullo sfondo, vicino a un corso d’acqua, vi sono cinque persone nel tipico raccoglimento a lutto, il che lascia appunto dedurre che si tratti del mondo dei morti.
Orfeo rivedrà Euridice al termine di questo viaggio perdendola per sempre, ma Corot ha fermato il tempo prima che questo avvenisse, quando ancora erano felici e pieni di speranza.
In un’altra occasione invece lo stesso pittore li ha ritratti quando anche Orfeo è ormai sceso nel regno di Ade dopo essere stato ucciso.

E qui passeggiano insieme: a volte, accanto; a volte, lei lo precede e lui la segue;
altre volte è Orfeo che cammina davanti, e ormai senza paura di perderla,
si gira indietro a guardare la sua Euridice.
(Ovidio, Metamorfosi, XI, 64-66)

Così li custodisce il Museum of Fine Arts di Houston.

Quattro anni dopo, nel 1865, un altro artista francese dallo stile molto particolare, si cimentò nella raffigurazione di Orfeo. I quadri dedicati alla vicenda mitica furono più d’uno; quello qui proposto è fra i più famosi: si tratta di Orfeo o Fanciulla tracia con la testa di Orfeo di Gustave Moreau, ospitato al Musée d'Orsay di Parigi.

 

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Orfeo o Fanciulla tracia con la testa di Orfeo del pittore simbolista parigino Gustave Moreau (Musée d'Orsay, Parigi, 1865).

Moreau, come abbiamo anticipato, è un artista molto originale: la sua formazione è neoclassica ma alla rappresentazione dei temi classici, accosta uno spiccato simbolismo di cui la sua pittura è più o meno esplicitamente intrisa.
Chi guarda un’opera di Moreau rimane abbagliato dalla potenza visiva esercitata sull’animo; non è possibile restare indifferenti di fronte a un suo quadro, perché si ha un bisogno impellente di capire, capire che cosa suscita nell’intimo l’immagine che si ha dinanzi.
Come in tutti i suoi dipinti, c’è qualcosa di inquietante nell’Orfeo che il pittore compose alla soglia dei quarant’anni. E non è semplicemente l’inquietudine dettata dal drammatico e macabro episodio del mito.
Si ha la sensazione che in quella rappresentazione, deserta, sanguigna, muta, siano state riunite le angosce più profonde dell’uomo, come la morte. Il pensiero della morte infatti ci fa sentire soli, come se ci trovassimo nel deserto, porta con sé l’idea del sangue, la nostra linfa vitale, e infine, ci lascia muti dinanzi al mistero più grande. Eppure, questa testa sublime, selvaggiamente falciata, riposa fra le braccia di una fanciulla piena di compassione, quasi a voler lasciare la speranza che non sarà il Male ad avere l’ultima parola se da esso è giunta la morte, e che nemmeno verremo dispersi.

Sempre al Musée d'Orsay si trova il quadro di Emile Levy risalente al 1866, l'anno successivo all'opera di Moreau. Anch'egli dedicò la sua attenzione alla morte di Orfeo, dipingendone l’uccisione a opera delle baccanti.

 

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La morte di Orfeo di Emile Levy (Musée d'Orsay, Parigi, 1866).


Le donne sono ritratte in preda alla frenesia bacchica, trionfanti attorno al cadavere di Orfeo e con i tipici attributi che contraddistinguono le seguaci di Dioniso: flauti, tirsi e tamburelli.
La presenza del leopardo e del serpente sottolinea la dimensione selvaggia del contesto in cui viene ucciso Orfeo, anche se la scena nel complesso risulta profusa di armonia e grazia. Non vi è nemmeno spargimento di sangue nel quadro; tuttavia, chinata verso il cantore, una delle menadi è pronta con la falce a decapitare il poeta.

Di tutt’altro genere è il dipinto di Briton Riviere sempre di quegli anni (1874). Il quadro si intitola Apollo suona il liuto, ma in realtà la scena mostra inequivocabilmente il potere di Orfeo di ammaliare e radunare attorno a sé tutte le creature attraverso la lira e il canto.

 

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Apollo suona il liuto del pittore inglese Briton Riviere. Nonostante il dipinto identifichi Apollo nel giovane che suona il liuto, il personaggio ha tutte le caratteristiche di Orfeo che con la sua musica ammansisce anche gli animali feroci (Bury Art Museum, Greater Manchester, 1874).

 

La docilità dei leoni accucciati accanto al poeta insieme ai leopardi e alle capre ha un’estasi contagiosa e pare di sentire le note che dalla lira si propagano nel bosco fin quasi a fuoriuscire dal quadro. I cervi disposti in riga poco oltre sono ipnotizzati dalla musica di Orfeo, proprio come tramanda la tradizione letteraria.

Con essa l’eagrio Orfeo, un tempo, sopore alla fiere
impose e sensi alle rocce e orecchie alle foreste
e commozione a Dite e infine un limite alla morte.
(Manilio, Poeticon Astronomicon, V, 326-328)

Chiudiamo questa breve galleria dedicata a Orfeo con un quadro del 1905, opera del pittore John William Waterhouse. Purtroppo appartiene a una collezione privata e non è quindi possibile vederlo dal vero. Purtroppo perché si tratta di un autentico capolavoro. Waterhouse è un artista che ama la bellezza pura, la stessa che amavano gli antichi Greci: kalòs kai agathòs. Il canone estetico è sublimato nei tratti gentili e nobili delle sue figure.

 

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Le Ninfe trovano la testa di Orfeo, opera dell'inglese John William Waterhouse, pittore di stile preraffaellita con influenze impressioniste, la corrente artistica del suo tempo (collezione privata, 1905).

 


Le ninfe trovano la testa di Orfeo si intitola il quadro e l’aria che si respira è proprio quella leggera e fatata del mondo delle ninfe. Waterhouse non ha però mancato di centrare l’atmosfera tetra, inquietante e macabra dell’episodio raffigurato, come è il ritrovamento di una testa mozzata che galleggia lungo le rive di un fiume. Lo ha fatto scegliendo colori scuri che ha fissato nei vestiti delle ninfe, nel poco spazio fra gli alberi, nell'acqua plumbea, da cui affiora, intatto, quel volto pallido seguito dalla lira e che chiama senza fine “Euridice… o misera Euridice”.

 

 

 

 

 

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