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OFIUCO

Ophiuchus, Ophiuchi

Oph

 

 

05 - Ofiuco (mito)

La costellazione dell'Ofiuco o Serpentario nell'Uranographia di Hevelius (1690).
Immagine: http://www.atlascoelestis.com

Ofiuco è il nome greco della costellazione che i Romani conoscevano come Serpentario. Entrambe le parole significano “colui che tiene il serpente” (serpente in greco si dice ophis) e infatti proprio una simile figura si vede nell’uranografia di Hevelius (a inizio pagina).

Il Serpente è a sua volta una costellazione, la quale viene però divisa in due parti dall’Ofiuco; si parla perciò di Testa del Serpente (Serpens Caput) e di Coda (Serpens Cauda). Il personaggio che con grande sforzo sta cercando di domare il gigantesco e ribelle serpente è Asclepio, colui che divenne il dio e il patrono della medicina, Esculapio per i Romani, venerato in tutta la Grecia fin dal VI secolo a.C., e dal III secolo a.C. anche a Roma.

Si narra che Apollo, il dio della luce, ma anche della medicina, della musica e della poesia, si unì alla figlia di Flegias, re della città di Orcomeno in Beozia e figlio di Ares, il dio della guerra. Coronide era il nome della fanciulla ed Epidauro era la città dell’Argolide che ospitò il loro amore. Come rientra nel volere degli dèi, nessuna unione di un dio con una mortale è mai sterile e così, Coronide dopo essersi congiunta al dio, portava nel grembo il frutto del suo congiungimento.

Ma, come ci racconta il poeta Pindaro:
 
pur portando in grembo il puro seme del dio,
non seppe attendere l’ora della festa nuziale,
il tempo in cui risuona il canto imeneo,
quando le vergini compagne della sposa
liete intonano canzoni nella sera.
Essa vagheggiava l’ignoto, come tanti altri.
La specie più stolta fra gli uomini
è quella che disprezza il paese in cui si è nati
e anela a cose lontane, inseguendo con folli, con vane speranze le ombre.
(Pindaro, Pitica III, 15-23)

Coronide infatti tradì Apollo unendosi poco tempo dopo con uno straniero venuto dall’Arcadia e, così facendo, non rispettò l’usanza arcaica secondo la quale una donna fecondata da un dio doveva sposarsi con un uomo del suo villaggio, scelto per lei come padre putativo dell’eroe che sarebbe nato. Il matrimonio doveva essere celebrato solennemente e festosamente con il tipico canto nuziale, l’imeneo, che veniva intonato alla sera, momento in cui venivano celebrate le nozze.

Coronide dunque venne meno due volte alla tradizione, avendo violato le norme del matrimonio ed essendosi unita a uno straniero. Apollo, dio della luce, che tutto vede, non tollerò l’affronto della fanciulla,

… perché il Lossia coglie sempre nel segno e nessuno,
né uomo né dio, può ingannarlo, con atti o pensieri.
(Pindaro, Pitica III, 29-30)

Lossia è un epiteto di Apollo e significa oscuro in riferimento ai suoi oracoli. Il dio affidò così alla sorella Artemide il compito di punire Coronide.

Essa, prima ancora di portare il bimbo
al suo termine col soccorso di Ilizia, la dea che aiuta le madri,
fu stroncata dall’arco d’oro di Artemide,
nella sua stanza: così, per volontà di Apollo,
discese nella dimora di Ade.
La collera dei figli di Zeus non è mai vana.
(Pindaro, Pitica III, 8-13)

Tuttavia quando la ragazza fu messa sulla pira funebre e le fiamme ormai l’avvolgevano, Apollo non sopportò che perisse anche il figlio suo, innocente. Con un balzo si scagliò in mezzo al fuoco ed estrasse il piccolo dal grembo materno. Fu così che nacque Asclepio, che Apollo affidò al centauro Chirone di Magnesia,

perché gli insegnasse a guarire le dolorose malattie degli uomini.
E quanti venivano a lui, portatori di ulcere nate nelle loro carni,
o feriti nel corpo da armi di bronzo o da un lancio di pietre
o straziati dal sole infuocato dell’estate o dal gelo degli inverni,
lui li congedava liberati ciascuno dal suo male,
gli uni curandoli con blandi incantesimi, gli altri con pozioni ristoratrici;
ora applicava alle membra ogni sorta di rimedi,
ora invece li riportava eretti mediante incisioni.
(Pindaro, Pitica III, 46-53)

Ma, come la madre, anche Asclepio trasgredì a una legge: quella secondo cui, una volta trapassati, dall’Ade non si può più ritornare. Asclepio invece faceva risuscitare i morti, fra i quali Ippolito, figlio di Teseo, e Glauco, figlio di Minosse. Permettere che i defunti tornassero in vita, significava sovvertire l’ordine del mondo, mettere in discussione la mortalità degli uomini e di conseguenza l’immortalità degli dèi, unici a poter godere di questo privilegio.

Significava riproporre in chiave umana quanto era successo all’inizio dei tempi quando i Titani, creature terrigene, attaccarono le sedi olimpiche, minando la gerarchia del mondo. Tutto questo non era ammissibile e Zeus, garante dell’ordine cosmico, colpì Asclepio con la sua folgore, uccidendolo.

Bisogna formulare agli dèi richieste adeguate alla nostra natura mortale,
e guardare in basso e ricordarci della nostra condizione.
(Pindaro, Pitica III, 59-60)

ci ammonisce Pindaro.

Come ci racconta Igino, Asclepio fu posto in seguito fra le stelle da Zeus stesso per riguardo alla sua abilità e per Apollo suo padre. E ci spiega anche il perché del serpente fra le mani:

quando venne costretto a guarire Glauco, egli, chiuso in un luogo nascosto, stava meditando sul da farsi con un bastone tenuto in mano. Un serpente, si dice, si arrampicò su quel suo legno. Esculapio, spaventato, lo uccise, mentre quello fuggiva, colpendolo più volte con il bastone. In seguito, viene tramandato, un altro serpente entrò nello stesso luogo. Portava in bocca un filo d’erba che appoggiò sulla testa del primo, dopodiché entrambi scapparono via di lì. Utilizzando quell’erba Esculapio riuscì a resuscitare Glauco. Pertanto, si racconta, il serpente fu posto, allo stesso tempo, sotto la protezione di Esculapio e nel firmamento. Questa consuetudine indusse i posteri a tramandare l’utilizzo dei serpenti da parte dei medici.
(Igino, Poeticon Astronomicon)

E infatti Asclepio è sempre rappresentato con un bastone attorno al quale si attorciglia un serpente. Questo bastone con serpente è divenuto poi il simbolo dell’arte medica; le insegne delle farmacie ne sono un esempio. Asclepio in quanto figlio di un dio e di una mortale, non era immortale, tuttavia il culto che sorse in suo onore lo fece annoverare fra le divinità. Epidauro, sua città natale, fu il centro di culto maggiore, con un grande santuario dedicato a lui.

Continui pellegrinaggi da ogni parte della Grecia vi avevano luogo, soprattutto da parte di malati che speravano di ottenere lì la guarigione. Nel 430 a.C. quando Atene fu colpita dalla peste, vi fu una vera e propria esplosione del culto, che venne importato in tutte le grandi città greche. Nel 295 a.C. la venerazione del dio giunse a Roma, mentre il suo tramonto avvenne nel 395 d.C. quando l’imperatore romano Teodosio, ormai di stampo cristiano, proibì tutti i culti pagani ordinando la distruzione dei templi.

 

 

 

 

 

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