Torna a Il mito delle costellazioni di luglio

 

CORONA BOREALE

Corona Borealis, Coronae Borealis

CrB

 

 

02 - Corona Boreale (mito)

La costellazione della Corona Boreale nell'Uranographia di Hevelius (1690).
Immagine: http://www.atlascoelestis.com

Il dio che ha voluto ornare il cielo della costellazione chiamata Corona Boreale – o semplicemente Corona, essendo quella dell’altro emisfero di origine posteriore – è Dioniso, il Bacco dei Romani.

Alla notte trapuntata di stelle volle agganciare il diadema di una principessa che egli amò, affinché risplendesse per sempre ricordando agli uomini della loro storia d’amore. Il nome della principessa era Arianna e la vicenda di questa manciata di stelle iniziò la notte di una stagione non precisata, sulla sabbia di un’isola sperduta nelle acque dell’Egeo. Per molti quest’isola si chiamava Dia, ma quasi tutti la conoscevano col nome di Nasso. Si tratta della maggiore delle Cicladi, un tappeto morbido di spiagge calde lambite dalle onde, che al centro si stropiccia in una catena di monti che la attraversano da sud a nord. Da pochi giorni vi erano approdati la principessa Arianna di Creta con il suo amante Teseo, imminente re di Atene.

Cnosso, la città della giovane, aveva appena assistito a un avvenimento destinato a entrare nella leggenda: il Minotauro, creatura mostruosa per metà uomo e per metà toro, era stato ucciso per mano di Teseo.
 
Il “Toro di Minosse”, questo il significato del nome Minotauro, viveva in una recesso freddo e umido del palazzo di Cnosso, imprigionato al centro di un intricatissimo labirinto, il quale venne edificato appositamente per scongiurarne la fuga. Per la sua costruzione Minosse, il re di Creta, si era rivolto al più grande architetto esistente, Dedalo, perché voleva essere sicuro di avere a disposizione l’opera migliore. Il Minotauro infatti era un pericolo troppo grande per la comunità, la sua ferocia era inaudita; generato proprio dalla consorte di Minosse, che tanto tempo prima perse la testa per un toro bellissimo inviato da Poseidone e si unì a lui oltraggiando così le leggi della natura, si distinse fin dall’inizio per la forza bruta e il temperamento violento. Si scagliava contro chiunque gli venisse a tiro e dopo averlo massacrato, lo finiva portandoselo alla bocca in un pasto ripugnante. Dedalo costruì un labirinto talmente complesso che egli stesso non seppe uscirne e dovette ingegnarsi una seconda volta per liberarsi. Fu in quell’occasione che si fabbricò le famose ali di cera con le quali spiccò il volo e aggirò il rebus.

Da qualche giorno dunque il Minotauro non esisteva più. Grazie a Teseo, non solo i Cretesi potevano stare tranquilli, ma soprattutto gli Ateniesi poterono finalmente tirare un sospiro di sollievo e mettere la parola fine a un tributo di vite umane che durava da molto tempo. Ogni anno infatti, i cittadini di Atene dovevano inviare a Minosse sette adolescenti di ambo i sessi e appartenenti alla nobiltà i quali, una volta giunti sull’isola, venivano rinchiusi nel labirinto e lasciati sbranare dal Minotauro. Un simile vincolo impose il re di Creta al re di Atene, Egeo, colpevole di avere fatto assassinare “per futili motivi” come diremmo oggi, Androgeo, uno dei tre figli di Minosse.

Quell’anno fra i sette giovani destinati al supplizio c’era anche il figlio di Egeo in persona, Teseo. Il principe approdò sull’isola da prigioniero, insieme agli altri compagni e prima che le guardie di Minosse accompagnassero le vittime nelle viscere del palazzo, i giovani vennero fatti sfilare per le strade della città. Arianna, figlia di Minosse e sorella del defunto Androgeo, attendeva col padre su uno dei bastioni l’arrivo degli ateniesi; bella, statuaria, algida nella sua veste percorsa dal vento, aveva al suo fianco la madre Pasifae, divisa fra il rimorso che le impediva di tenere lo sguardo sul gruppo di adolescenti e il rimpianto del figlio ucciso. Quando lo sfortunato corteo giunse dinanzi all’ingresso del palazzo si fermò e Arianna osservò uno a uno i volti delle imminenti vittime. Come sempre erano visi ancora puri, spesso imberbi e, nonostante la sete di giustizia per il fratello ucciso, non poteva evitare una stretta al cuore dinanzi a un crimine perpetrato verso innocenti. Mentre faceva questi pensieri, i suoi occhi si posarono su Teseo e immediatamente fu rapita dalla bellezza del ragazzo: un fisico forgiato dall’assiduo allenamento nel gymnasium, occhi di tenebra fieri e senza paura, labbra disegnate da Afrodite, i capelli come piccole onde che si inseguivano sul capo cinto di un sottile cerchio d’oro. Quel semplice ornamento era l’attributo dei principi e Arianna fu presa da un turbamento ancora più grande. Era dunque il principe di Atene quello che aveva di fronte; anche il principe di Atene era stato condannato al sacrificio. Arianna ebbe una ragione in più per volerlo salvare, almeno per quello che poteva. Se mai fosse riuscito a sopravvivere al Minotauro, egli doveva poi ritrovare l’uscita del labirinto, quell’uscita che nemmeno il suo ideatore era riuscito a rintracciare e questo significava essere destinati comunque a perire. La principessa non sapeva se quel giovane che già amava, sarebbe stato in grado di abbattere la belva. Poteva solo sperare nel vigore dei suoi muscoli, nel piglio ribelle che animava quell’esistenza e naturalmente… negli dèi. Se essi avessero voluto risparmiargli la vita, allora lei poteva completare l’opera e tirarlo fuori dalla prigione maledetta. L’amore, ormai impetuoso nel suo cuore, le suggerì la strategia.

Attese la notte che tutti dormissero per recarsi alla cella dov’erano rinchiusi i quattordici fanciulli. Con la torcia illuminò uno dopo l’altro i loro volti alla ricerca di quell’unico in cui riponeva le speranze. Enormi occhi terrorizzati la fissavano in attesa dell’indomani fatale. Poi eccoli, quegli occhi coraggiosi, per la prima volta nei suoi. Un fremito s’insinuò nel petto del ragazzo alla vista dello splendore di Arianna, ancora più bella vista così da vicino. Si sentì chiamare: “Tu. Avvicinati”. Mentre lo convocava, la ragazza si sforzò di tenere una condotta adeguata alla figlia del re di Creta, potente sul mare, ma la voce tradiva un’emozione incurante del lignaggio.

Teseo fece come diceva e, separati solo dalla grata, i due giovani si guardarono a lungo negli occhi, confessandosi un amore. Arianna interruppe la silenziosa contemplazione reciproca allungandogli un gomitolo color vermiglio. “Ti servirà”, gli disse. “Se riuscirai a uccidere il Minotauro, ti farà ritrovare la strada per uscire dal labirinto. Scioglilo a ogni tuo passo affinché, ancorato all’ingresso, tracci il percorso dei tuoi piedi e se gli dèi saranno con te, ti riporterà fuori. E sarai salvo”. Il principe di Atene prese il gomitolo senza dire nulla, poi la ringraziò chinando il capo.

L’alba arrivò annunciandosi in un sole pallido. Le fanciulle piangevano, alcune gridavano in preda al panico; i ragazzi invece cercavano di essere forti, ma i loro volti erano maschere di paura. Varcata la soglia del labirinto, Teseo si mise in testa ai compagni e lasciò cadere la prima estremità del filo. Si avventurò negli innumerevoli meandri, spesso trovandosi a incrociare il filo in vicoli già percorsi, ma alla fine dopo un tragitto che lo aveva privato completamente dell’orientamento, con la testa che gli girava a sorpresa si ritrovò davanti il Minotauro. Era impressionante: un toro nella testa e nel collo, che proseguiva nelle fattezze di un uomo dal torace ricoperto di vello bovino. La creatura infine terminava con zoccoli e coda taurini. Ma Teseo non fece in tempo a studiare l’avversario che se lo ritrovò addosso con la bocca urlante e affamata. Il principe di Atene lasciò il gomitolo e intraprese un duello furioso, facendo leva sulla sola forza delle braccia e scatto delle gambe; riuscì dopo molto penare ad atterrarlo e poi a bloccarlo tenendogli le corna, serrato alla schiena pelosa sotto cui si tendevano piccoli muscoli operosi. Con uno sforzo sovrumano, Teseo strappò un corno al Minotauro, che sfociò in un grido atroce e si dibatté rabbiosamente, scagliando il figlio di Egeo contro una delle fitte pareti. Nell’atrio antistante l’ingresso del labirinto, la famiglia reale attendeva come ogni anno l’esito del tributo. Quante urla di giovani vite giungevano da quei recessi bui sotto forma di eco lontane. Impossibile abituarsi agli orrori che avvenivano nell’intrico di Dedalo: i giovanissimi ateniesi sperduti all’interno dei vicoli ciechi, in lacrime nella ricerca disperata dell’uscita, si imbattevano invece nel Minotauro, randagio nel groviglio di pietra. Arianna, terrea in volto, si tappava le orecchie ogni volta che il silenzio era interrotto da una di quelle grida agghiaccianti. Ma questa volta, il lamento non era stato di fanciullo. Possibile che il possente Minotauro fosse stato ferito?

Intanto Teseo col corno saldo nella mano si lanciava in un ultimo atto temerario: raccolte tutte le forze, trapassò il petto del Minotauro là dove batteva il cuore. L’essere ibrido stramazzò a terra con un tonfo, e in pochi istanti l’anima esalò dal corpo. Il figlio di Pasifae non esisteva più. Teseo raccolse il gomitolo e lo percorse a ritroso fino ai corridoi prossimi all’uscita, dove aveva ordinato ai compagni di aspettarlo. Al rivederlo, i giovani si sciolsero in un pianto liberatorio e lo abbracciarono convulsamente. Il principe di Atene si presentò infine alla porta che nessuno dall’interno aveva mai varcato. Le mani sporche del sangue del Minotauro, il corpo sfregiato dai colpi ricevuti, sul volto l’espressione di chi non teme nulla: era diventato un eroe.

Questo era l’uomo con cui Arianna qualche giorno dopo salpò da Creta. La nave con cui Teseo era approdato nel regno di Minosse, tornò a veleggiare sul mare con tutti gli Ateniesi e con un’ospite, la principessa Arianna, risarcimento e trofeo consenziente. Teseo tuttavia non fece rotta immediata su Atene ma si diresse nell’arcipelago delle Cicladi dove ancorò il suo veliero alle sabbie sommerse di Nasso. Lì promise ad Arianna il loro nido d’amore. Prendendole le mani, la guardò negli occhi e rievocando le conseguenze del suo approdo a Creta – l’uccisione del Minotauro, l’esilio imposto ad Arianna dal padre per aver seguito il principe di Atene – le offrì la sua fedeltà:

“Io giuro, su questi stessi pericoli,
che finché vivrà l’uno e l’altro di noi, tu sarai mia!”.
(Ovidio, Heroides, 10, 73-74)

Ma non erano trascorse che una manciata di notti che Arianna ebbe un’amara sorpresa. Quanto successe lo sappiamo da una lettera che ella scrisse dall’isola, in preda allo struggimento.

Quello che leggi, o Teseo, te lo mando da quella spiaggia da dove le vele portarono via, senza di me, la tua nave, dove il mio sonno malamente mi tradì, e tu con esso, tu che con l’inganno insidiasti il mio sonno. Era l’ora in cui la terra comincia a cospargersi di cristalli di brina, e sotto il fogliame gli uccelli iniziano il loro lamento. Sveglia soltanto in parte, nel torpore lasciato dal sonno, sollevandomi appena, mossi le mani per abbracciare Teseo: non c’era più! Ritraggo le mani e provo un’altra volta, muovendo le braccia per tutto il letto: no, non c’era più! La paura mi scosse dal sonno: balzo su, atterrita, e il mio corpo si slancia fuori del letto abbandonato. Subito allora il mio petto risuonò sotto i colpi delle mani, e mi strappai i capelli, scarmigliati com’erano dal sonno. C’era la luna: guardo se vedo qualcosa, oltre alla spiaggia; ma oltre la spiaggia gli occhi non hanno altro da vedere.
(Ovidio, Heroides, 10, 3-18)
 

A Nasso non c’era più nessuno. Solo il rumore del vento e delle onde nel loro ritmico avvolgersi sulla battigia. Arianna non si capacitava di essere stata abbandonata e in lacrime, salì su un monte dalla cui cima si protendeva un grosso scoglio.

Di lì – perché anche i venti mi sono stati crudeli – vidi le tue vele gonfiate dal soffio impetuoso di Noto. O le vidi, o come se pensassi di vederle, diventai più fredda del ghiaccio, e quasi priva di vita. Ma il dolore non mi lascia a lungo inebetita: mi risveglia, mi risveglia e allora chiamo Teseo con tutta la mia voce: “Dove fuggi?” grido; “torna indietro, Teseo scellerato! Volgi la nave! Essa non è al completo!”. Così dicevo, e quel che alla voce mancava lo supplivano i colpi sul petto: i colpi si mescolavano alle mie parole. Perché tu potessi almeno vedermi, se non udirmi, ti feci larghi gesti agitando le braccia, e misi un velo bianco sulla cima di un lungo ramo per richiamare chi certamente mi aveva scordata. Ma ormai eri stato sottratto ai miei occhi, e allora alfine piansi: le mie tenere guance fin allora le aveva intorpidite l’angoscia.
(Ovidio, Heroides, 10, 29-44)
 

I giorni che seguirono furono lacrime di rabbia, eppure se avesse visto riapparire dal mare la barca minacciosa di Teseo, gli avrebbe perdonato il tradimento. Sperava sempre che l’orizzonte le restituisse la visione delle vele nere, ma quella speranza veniva ogni volta negata.

Grida e lacrime insieme
mescolava, e l’une e l’altre
le accrescevano grazia, ché quel pianto
non deturpava quel suo dolce viso.
(Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 531-532)
 

Stava piangendo accasciata sulla sabbia gridando contro l’amante infedele, quando udì in lontananza un tamburellare febbrile di cembali unito a cori femminili in delirio. Non c’era dubbio: erano le Baccanti, le seguaci del dio dell’ebbrezza, dell’eccesso, della pazzia. Dioniso… il seducente Dioniso, sovrano immortale venuto dall’Oriente col capo nascosto da pampini d’uva al posto della corona e un lungo bastone ricoperto d’edera per scettro, pelle di pantera come veste regale, coi suoi occhi magnetici e lussuriosi egli rapiva. Porgendo oinochoe colme di vino prendeva i sensi, cancellava gli affanni e dava l’estasi. Le donne che si erano votate a lui erano uscite di senno e, insieme ai Satiri, erano divenute le sue fedeli compagne.

Per il terrore [Arianna] s’accasciò sul lido,
lasciando a mezzo le ultime parole:
esanime restò, senza più sangue.
Ed ecco le Baccanti, coi capelli
sparsi dietro le spalle, ed ecco i Satiri
venir leggeri ad annunziare il dio;
ecco il vecchio ubriaco, ecco Sileno
cavalcare a sbilenco il somarello
e abbracciarglisi al collo: le Baccanti
insegue al trotto, e quelle un poco fuggono,
ora insieme lo assalgono; egli sprona
col bastone il quadrupede e traballa,
pessimo cavaliere; e poi stramazza
dall’orecchiuta bestia a capo in giù.
E tutti in coro i Satiri: “Su, padre,
alzati, padre!”.
(Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 537—546)
 

E poi eccolo: un dio di sfolgorante bellezza, la fronte cinta di foglie di vite, in una mano il tirso, nell’altra briglie d’oro con cui reggeva un carro magnifico trainato da enormi tigri. Aveva un viso di straordinaria grazia e occhi luminosi; mollezza e forza si incontravano in un'unica creatura. Non appena vide Arianna, fermò il cocchio con un gesto deciso e le belve ruggirono mentre egli si ergeva in tutta la sua magnificenza. Scese e con incedere vagamente ebbro ma comunque maestoso si diresse verso Arianna.

Ella mancò, le fuggì via la voce,
disparve ogni ricordo di Teseo;
cercò tre volte invano di fuggire,
tre volte la trattenne la paura.
Tremò, come nel vento lieve spiga,
come nel fango le palustri canne.
E a lei il nume: “Son qui io, amante
ben più fedele”, disse. “Non temere,
o Cnossia, tu sarai sposa di Bacco.
(Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 550-554)
 

Detto questo le si avvicinò, le prese il mento fra le mani e le rubò un bacio. Era il bacio di un dio, del dio cui nessuno poteva negarsi. Per la prima volta dall’ultima notte in cui Teseo l’aveva tenuta fra le sue braccia, Arianna si abbandonò di nuovo, la mente confusa ma leggera.

E la notte giunse di nuovo, col suo mantello di stelle fermato con un bottone di luna. Nel talamo che prima era di Teseo, giaceva ora Dioniso e fra le sue braccia si riparava Arianna. Lo sciabordio delle onde e il sussurro del vento fra le rocce dove si erano celati, accompagnavano come una musica dolcissima le parole del dio per la sua amata. Carezzandole i capelli da cui poco prima aveva tolto la preziosa corona, le promise ciò che solo un dio può concedere.

“Mio dono è il cielo: chiara tra le stelle
t’ammireranno nuova stella in cielo.
La corona di Creta ai naviganti
guiderà spesso il corso”.
(Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 555-556)
 

L’indomani, al risveglio, Arianna credette di aver fatto un sogno, ma l’abbraccio in cui si trovava le disse che era tutto vero. Dioniso indugiò a spezzare la magia della notte con Arianna, ma poi si alzò e salì sul suo carro. Voleva radunare tutte le Menadi e avere i Satiri al completo. Percorse perciò tutta l’isola finché al crepuscolo, quando il sole cedeva il posto ai primi astri, ripeté pubblicamente la sua promessa d’amore.

“Mio dono è il cielo: chiara tra le stelle
t’ammireranno nuova stella in cielo.
La corona di Creta ai naviganti
guiderà spesso il corso”.
Disse, e scese d’un balzo giù dal carro (sull’arena
lasciò l’orma il suo piede) onde le tigri
ella più non temesse, e sul suo petto
stretta che l’ebbe (né valeva in lei
forza a vincere il dio), la possedette.
Tutto può un nume e sempre ciò che vuole.
E intanto intorno il grido d’Imeneo
alto s’udiva e il coro: “Evoè, Bacco!”;
e s’unirono insieme il dio e la sposa
sul sacro letto.
(Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 555-563)
 

Preso poi fra le mani divine il diadema della principessa di Creta, lo baciò e levatolo in alto disse:

“Farò che della tua corona resti con te la memoria:
Venere da Vulcano l’ottenne e tu da lei”.
Detto fatto, le nove gemme si mutano in astri:
ora quella corona d’oro splende per nove stelle.
(Ovidio, I Fasti, III, 514-516)
 

Questa fu la storia di Arianna e del suo diadema tramutato in costellazione. Ma ciò che ella non seppe mai, fu che in realtà Teseo non se ne era andato per volontà propria, perché l’artefice della sua partenza a sorpresa fu Dioniso. Dalla terra assolata della Sicilia, lo storiografo Diodoro vissuto ai tempi di Augusto, svelò quanto era accaduto a insaputa della principessa.

Avendo visto in sogno Dioniso che lo minacciava se non gli avesse lasciato Arianna, Teseo si impaurì, abbandonò la donna e prese il mare. Dioniso trasportò Arianna di notte sul monte chiamato Drio; dapprima si rese invisibile il dio, successivamente anche Arianna scomparve.
(Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 51)

E quell’Arianna che scomparve dalla terra, è riapparsa invece copiosamente in campo artistico. Il mito di Bacco e Arianna fu infatti un tema particolarmente caro all’arte. Esso ha avuto un’eco straordinaria in tutti i tempi fin da quelli più antichi.

Una delle rappresentazioni più arcaiche della coppia si trova su un’anfora attica risalente al 520-510 a.C. e attribuita a due pittori: il cosiddetto Pittore di Andokides e quello di Lysippides.

 

02 - Corona Boreale (mito)

Anfora attica bilingue attribuita al Pittore di Andocide e al Pittore di Lisippide con al centro Dioniso e Arianna affiancati da tre satiri (Louvre, 520-510 a.C.).
Immagine: www.theoi.com

 

Il centro della scena è dominato da Dioniso che in una mano tiene una vite rigogliosa da cui pendono quattro grappoli d’uva, mentre nell’altra regge uno skyphos, tipo di vaso usato nei simposi per servire il vino. Arianna è di fronte a lui pronta per ricevere il vino nell'oinochoe, altro recipiente destinato al consumo del vino. Al seguito del dio vi sono due Satiri, uno recante un otre e l’altro una lira, di cui il tempo ha risparmiato solo l’impugnatura. Arianna invece è accompagnata da un Satiro che porta sulla spalla un animale scarificato. La scena illustra probabilmente il momento preparatorio di un rito dionisiaco. L’anfora è conservata al Louvre.

Del periodo classico – circa 460 a.C. – è invece una lekythos attica a figure rosse, attribuita al cosiddetto Pittore di Pan e che oggi è ospitata al Museo Archeologico Nazionale di Taranto. La lekythos è un vaso adibito tipicamente a scopi funerari e quella conservata a Taranto rappresenta Arianna abbandonata a Nasso.

 

02 - Corona Boreale (mito)

Durante la notte Teseo su richiesta di Atena abbandona Arianna immersa nel sonno. La scena è raffigurata sulla lekythos attica a figure rosse del Pittore di Pan (Museo Archeologico Nazionale di Taranto, ca. 460 a.C.).
Immagine: www.theoi.com

 

La scena è ispirata a una delle molteplici varianti del mito. In questo caso infatti Teseo, nell’atto di alzarsi dal talamo, non da Dioniso è incitato ad abbandonare Arianna, ma da Atena. Arianna dorme placidamente e ad assicurare il suo sonno vi è un piccolo Hypnos alato – personificazione del sonno – rannicchiato sulla sua chioma.

La stessa scena con qualche variante si ritrova su un recipiente riservato al trasporto del vino, dunque un vaso di grandi dimensioni, chiamato stamnos. Quello di cui si parla è opera del Pittore di Arianna e risale alla fine del V secolo a.C, circa 400-390 a.C.

 

02 - Corona Boreale (mito)

Stamnos apulo a figure rosse del Pittore di Arianna con Teseo che su richiesta di Atena, abbandona Arianna sull'isola di Nasso (Museum of Fine Arts, Boston, ca. 400-390 a.C.).
Immagine: www.theoi.com

 

Proviene dalla Puglia e oggi si trova nel Museum of Fine Arts di Boston. Anche in questo caso è Atena, protettrice dell’omonima città, che ordina a Teseo futuro re di Atene, di abbandonare Arianna. Accanto a Teseo si può vedere la prua della nave su cui sta per salire, mentre l’amata di nuovo giace addormentata sotto la sorveglianza del dio del Sonno, Hypnos, che la tiene prigioniera versandole sul capo gocce del Lete, il fiume degli inferi.

Di poco posteriore – 380-360 a.C. – è la raffigurazione a figure rosse di Dioniso e Arianna su un cratere a volute, attribuito al Pittore di Creusa e di provenienza lucana. Il cratere era un vaso grosso e pesante dove il vino veniva mescolato con l’acqua per alleggerirlo e poi servito. Quello del pittore di Creusa mostra un’ampia scena dionisiaca, dove il dio è attorniato dal suo corteo e incoronato da Arianna.

 

02 - Corona Boreale (mito)

Cratere a volute lucano a figure rosse con Dioniso e Arianna seduti in una vigna attribuito al Pittore di Creusa (Toledo Museum of Art, ca. 380-360 a.C.).
Immagine: www.theoi.com

 

Gli amanti siedono su una collina coperta di vigneti e Dioniso ha in mano un lebes gamikòs, la coppa nuziale, indizio che la scena raffigura molto probabilmente le loro nozze.
 
Nel I secolo d.C., Pompei ha invece restituito un bellissimo affresco proveniente dalla Casa di Lucrezio Frontone, oggi tutelato al Museo Archeologico di Napoli.

 

02 - Corona Boreale (mito)

Il trionfo di Dioniso e Arianna dipinto sulla parete del tablino della Casa di Lucrezio Frontone a Pompei, un'abitazione appartenente a una delle famiglie più potenti della città (Museo Archeologico di Napoli, I secolo d.C.).
Immagine: Mentnafunangann, https://commons.wikimedia.org

 

Anche se il tempo ne ha sbiadito i colori in molte parti, non è difficile risalire alla magnificenza originaria dell’opera: Dioniso e Arianna stanno sul carro che qui è trainato da buoi, mentre un corteo di Menadi e di Satiri festeggia la loro unione con canti e danze. In primo piano sul lato sinistro dell’affresco è riconoscibile Sileno sul somarello di cui parla Ovidio nell’Arte di Amare. Dioniso benedice il suo seguito facendo il gesto del brindisi con il lebes gamikòs, segno che siamo dinanzi alla festa nuziale della coppia.

Con un salto di ben quindici secoli ci immergiamo nell’atmosfera esuberante del Rinascimento italiano. A Venezia Tiziano e il suo allievo Jacopo Robusti, noto come Tintoretto, danno vita a opere di straordinaria vitalità.

Fra il 1520 e il 1523 Tiziano, il pittore più famoso del XVI secolo, realizza un dipinto di quasi due metri di larghezza che è possibile ammirare alla National Gallery di Londra. Egli è l’artista del colore, le cui tonalità sono una vera delizia per gli occhi. Il turchese, il verde smeraldo o il rosso sbiancato del mantello di Dioniso suscitano un senso di purezza che rende faticoso staccarsi dal quadro. Ma Tiziano è anche maestro nel conferire ai suoi soggetti un dinamismo nuovo rispetto alla tradizione pittorica del tempo.

 

02 - Corona Boreale (mito)

Bacco e Arianna di Tiziano Vecellio (London National Gallery, 1520-1523).

 

Nel suo Bacco e Arianna, la scena si sviluppa in diagonale così che il quadro risulta diviso in due sezioni, ciascuna caratterizzata da un colore dominante che si stempera nelle sfumature a esso proprie. Da un lato ci si perde nel turchese del cielo che diluisce la sua intensità negli elementi che gli sono subordinati: le nuvole, il mare, lo sfondo caliginoso su cui si stagliano i profili dei monti. Ma anche l’abito di Arianna è blu. Arianna dunque è assegnata al regno celeste, una scelta paradossale, dal momento che ella non è dea ma creatura mortale, terrestre. Ciò significa che, non per la sua natura umana si trova nella porzione di quadro che spetta agli dèi, bensì per il privilegio toccatole in sorte, quello di essere scelta da un dio che a sua volta l’avrebbe portata fra gli astri. Proprio sopra le nubi infatti, in corrispondenza del capo di Arianna, splende la Corona Boreale: il diadema della principessa è stato sollevato sino al firmamento e una costellazione nuova è sorta.

Dall’altro lato ci si radica alla terra col verde dei boschi. Qui la purezza celeste è del tutto assente, il contrasto fra i due mondi è spinto all’estremo con la presenza del corteo bacchico che per definizione è privo di regole, votato agli eccessi carnali. I Satiri, con gli attributi tipici di Dioniso – corona di pampini e tirso – sono metafora del carattere bestiale degli istinti umani sottoposti all’azione del vino. Ne sono testimonianza gli animali fatti a pezzi che si vedono nella scena: la testa di un cerbiatto ai piedi della Menade in primo piano e il cosciotto agitato dal Satiro all’estremità destra del dipinto. Sullo sfondo si intravede Sileno, grasso e completamente ubriaco in groppa al suo somaro. In una metà del quadro il silenzio, nell’altra il chiasso che stordisce.

Al centro, anello di congiunzione del regno celeste e del regno terrestre, Dioniso. Nell’atto di scendere dal carro agganciato a due leopardi, è completamente rapito dalla bellezza di Arianna, sorpresa mentre dà l’addio a Teseo, lontano sulla sua nave, piccola all’orizzonte e confinata all’estrema sinistra dell’opera.

Bacco e Arianna sono travolti da un sentimento cui non erano preparati, preludio di una storia d’amore destinata a diventare leggendaria.

Ma nella tela di Tiziano si può apprezzare anche il capolavoro nel capolavoro: fedele all’eredità lasciata dall’arte greca, di cui ne fece il proprio riferimento, rappresentò nel dipinto Laocoonte, in primo piano avvinghiato da serpenti. Il personaggio non c’entra nulla col mito, ma proprio in quegli anni venne alla luce in uno scavo archeologico, il famoso gruppo scultoreo e l'artista volle celebrarne la scoperta inserendolo nella sua opera.

Dioniso infine è raffigurato nella posa dell’altrettanto celebre statua del Discobolo. Il suo slancio può essere interpretato sia come l’esito dell’attrazione irresistibile per Arianna, sia come il gesto conclusivo dell’atleta quando scaglia il disco più lontano che riesce, in questo caso lo fa con la corona che lancia in alto fino a farle raggiungere gli astri. Con l’espediente del favoloso mantello rosso che si perde in mille pieghe nel vento, Tiziano ha saputo conferire straordinario dinamismo al quadro, pur lasciando nello spettatore il ricordo di un’opera complessivamente sobria.

Sul carro il dio
le briglie d’oro allenta le sue tigri,
alto tra l’uve e i pampini d’intorno.
Ella mancò, le fuggì via la voce,
disparve ogni ricordo di Teseo;
cercò tre volte invano di fuggire,
tre volte la trattenne la paura.
Tremò, come nel vento lieve spiga,
come nel fango le palustri canne.
E a lei il nume: “Son qui io, amante
ben più fedele”, disse. “Non temere,
o Cnossia, tu sarai sposa di Bacco.
Mio dono è il cielo: chiara tra le stelle
t’ammireranno nuova stella in cielo.
La corona di Creta ai naviganti
guiderà spesso il corso”. Disse, e scese
d’un balzo giù dal carro (sull’arena
lasciò l’orma il suo piede) onde le tigri
ella più non temesse, e sul suo petto
stretta che l’ebbe (né valeva in lei
forza a vincere il dio), la possedette.
Tutto può un nume e sempre ciò che vuole.
E intanto intorno il grido d’Imeneo
alto s’udiva e il coro: “Evoè, Bacco!”;
e s’unirono insieme il dio e la sposa
sul sacro letto.
(Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 547-563)

Una grazia sublime caratterizza l’opera di uno degli allievi di Tiziano, il Tintoretto. Realizzata nel 1576 e conservata a Venezia nella Sala dell’Anticollegio del Palazzo Ducale, mette in scena Bacco, Arianna e Venere.

 

02 - Corona Boreale (mito)

Arianna, Venere e Bacco di Jacopo Robusti detto il Tintoretto (Palazzo Ducale di Venezia, 1576).

 

La dea dell’amore unendo la mano della principessa a quella del dio come nel rito nuziale, solleva delicatamente la corona dal capo di Arianna, preparandola per la sua ultima destinazione, quella celeste come sottintendono le stelle d’oro di cui è fatta. Dal mito apprendiamo che fu Venere la prima a disporre di quel diadema, forgiato da Efesto, il dio fabbro di cui una volta fu amante. La dea in seguito lo donò ad Arianna.

I protagonisti con la loro estatica contemplazione impressa sul volto, guidano lo spettatore al centro del dipinto dove si concentra il senso stesso dell’opera: le mani di Dioniso e di Arianna che stanno per congiungersi. Il dinamismo è delicato ma ben riuscito grazie alla sospensione di Venere nell’aria e al fluttuare del velo sottile che le cinge i fianchi. Le forme sono plastiche e la tonalità appartenente al giallo rende il quadro caldo e lucente. I corpi degli dèi e della principessa sembrano infatti come cosparsi di unguento d’oro, che è il metallo più prezioso, estremamente duttile e luminoso.

Dioniso dalle chiome d’oro la bionda Arianna,
figlia di Minos, la fece sua sposa fiorente,
lei che il dio figlio di Crono fece immortale e ognor giovane.
(Esiodo, Teogonia, 947-949)
 

Il XVI secolo si chiude inaugurando l’epoca del Barocco, uno stile che predilige la teatralità. Suo scopo era stupire l’osservatore attraverso emozioni dirette, senza dover ricorrere all’intelletto per carpire i segreti dei quadri. Il bolognese Annibale Carracci fu uno dei primi esponenti di questo movimento artistico e dedicò gli anni dal 1597 al 1600 all’affresco del soffitto della Galleria Farnese nell’omonimo Palazzo a Roma, col soggetto di Bacco e Arianna. L’opera fa parte di un ciclo pittorico più vasto commissionato in occasione della costruzione della Galleria Farnese. Carracci fu il responsabile sia della progettazione che dell'esecuzione. Nella Galleria si volle rappresentare la potenza dell’amore servendosi della mitologia classica e in particolare delle grandi storie d’amore degli dèi olimpici. L’opera letteraria di riferimento per tali rappresentazioni furono le Metamorfosi di Ovidio.

 

02 - Corona Boreale (mito)

Il trionfo di Bacco e Arianna di Annibale Carracci (Palazzo Farnese, Roma, 1597-1600).

 

 

Guardando l’affresco dedicato a Bacco e Arianna si respira tutta la poesia del grande poeta latino, grazie all’estrema vitalità che scaturisce da esso. Tutti i protagonisti sono sorridenti, spensierati e l’atmosfera è quella festosa del banchetto nuziale esaltata dal giubilo dei seguaci di Dioniso. I putti alati sembrano sollevare in aria l’intera scena e non solo la corona di Arianna.


L’abbraccia e con i baci le terge le lacrime e “Andiamo,
le dice, tutt’e due insieme su nel cielo!
Tu che mi sei congiunta di letto unirai il tuo nome
al mio e, trasformata, Libera sarai detta.
Farò che della tua corona resti con te la memoria:
Venere da Vulcano l’ottenne e tu da lei”.
Detto fatto, le nove gemme si mutano in astri:
ora quella corona d’oro splende per nove stelle.
(Ovidio, I Fasti, III, 509-516)
 

Sempre a Bologna negli anni 1619-1620 un altro importante artista dava il suo contributo al mito di Bacco e Arianna. Era Guido Reni che rappresentò i due amanti in una composizione misurata ed elegante.

 

02 - Corona Boreale (mito)

Bacco e Arianna di Guido Reni (Los Angeles County Museum of Art, 1619-1620).

 

 

La tela, di dimensioni contenute, si trova al Los Angeles County Museum of Art e ritrae Arianna seduta su uno scoglio con l’aria rassegnata e lo sguardo rivolto al cielo dove risplende la sua corona trasformata in stelle.

Al suo fianco sta Dioniso verso il quale tende la mano, come a chiedere protezione. I colori sono quelli del cielo notturno e del mare, mentre il candore del corpo di Arianna la mette in posizione di rilievo facendone la protagonista privilegiata. Bacco invece la osserva titubante, apparentemente senza offrirsi a lei, come testimonia la posizione delle mani, l’una che sostiene il mantello l’altra poggiata sul fianco. La dichiarazione d’amore però c’è e brilla alta nel cielo.

Fu cara [Arianna]
anche agli dèi, e un segno nel mezzo del cielo,
una corona di stelle che porta il nome di Arianna,
si volge tutta la notte fra le figure celesti.
(Apollonio Rodio, Argonautiche, III, 1001-1004)
 

Chiude la rassegna l’opera tardo barocca di Luca Giordano, pittore napoletano che operò sul finire del Seicento. La sua ampia tela fu dipinta fra il 1685 e il 1686 e l’artista volle raffigurare il momento salvifico dell’arrivo di Dioniso.

 

02 - Corona Boreale (mito)

Bacco e Arianna di Luca Giordano (The Chrysler Museum of Art, Norfolk, Virginia, 1685-1686).

 

Arianna siede su un masso in riva al mare, immersa in un sonno profondo. Non si accorge infatti dei putti che sollevano il lenzuolo con cui si era coperta, per offrirla al dio che giunge alle sue spalle contemplandola. Un nutrito gruppo di satiri ancora bambini e altri piccoli fanciulli attorniano con curiosità ed entusiasmo la principessa, insieme al resto del corteo bacchico. Sullo sfondo si vedono i due leopardi di Dioniso, mentre in cielo, fra vaporose nubi, splende già la corona della principessa cretese, illuminata dai raggi di un sole maturo. Forse l’ora rappresentata è l’alba, per cui la costellazione sta volgendo al tramonto o forse – ipotesi più probabile – l’artista ha voluto sottolineare attraverso la visibilità diurna dell’asterismo, il valore supremo che Bacco dava all’amata.

E lei rimasta sola si lamentò disperatamente,
finché Bacco venne a portarle abbracci e aiuto,
e, per immortalarla con una costellazione,
le tolse dalla fronte il diadema e lo scagliò in cielo.
Vola quello per l’aria leggera, e mentre vola, le gemme si tramutano
in fulgidi fuochi che conservando la forma di una corona
vanno a fermarsi a mezza via tra l’Inginocchiato e Colui che tiene il serpente.
(Ovidio, Metamorfosi, VIII, 176-182)
 

E proprio questa disposizione si può constatare nella tavola uranografica dell’astronomo polacco Hevelius, pubblicata quattro anni dopo (a inizio pagina).

 

 

 

 

 

Torna a Il mito delle costellazioni di luglio