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CHIOMA DI BERENICE

Coma Berenices, Comae Berenices

Com

 

 

04 - Chioma di Berenice (mito)

La costellazione della Chioma di Berenice nell'Uranographia di Hevelius (1690). La tavola raffigura insieme anche le costellazioni del Bootes e del Monte Menalo, quest'ultima successivamente abolita dall'elenco ufficiale.
Immagine: http://www.atlascoelestis.com

In mezzo alle possenti figure del Leone e del Bootes, ondeggiano appena accennati i capelli di una regina che per amore del suo sposo, se li recise e li sacrificò agli dèi. La regina si chiamava Berenice e a differenza degli altri personaggi tracciati fra le stelle, è realmente esistita. Berenice è l’unica identità storica ad avere una costellazione dedicata. Seppur sporadicamente, qualche altro protagonista della storia si trova in realtà commemorato nel firmamento, ma bisogna cercarlo in singole stelle, non tra le costellazioni. Berenice invece ha avuto un privilegio ancora più raro, quello non solo di trovarsi fra le stelle, ma addirittura accanto ai personaggi del mito greco che animano le costellazioni dell’antico cielo boreale. Berenice visse nel III secolo a.C. ed era la figlia del re di Cirene, città situata nell’odierna Libia. Andò in sposa al re dell’Egitto, paese che dopo la morte di Alessandro Magno, era governato dalla dinastia dei Tolomei. Il faraone che regnò dal 246 al 222 a.C. era Tolomeo III, detto Evergete che in greco significa benefattore e che era anche il fratello di Berenice. Uno dei meriti di Tolomeo, fu quello di ampliare la Biblioteca di Alessandria – che al tempo conteneva ben cinquecentomila rotoli di papiri – con altre cinquantamila opere letterarie che depositò nel vicino tempio di Serapide. Ma un giorno Tolomeo dovette partire per combattere. L’avversario era Seleuco II, signore della Siria, salito al trono nello stesso anno di Tolomeo. Berenice aveva paura di questa guerra, la terza nelle steppe siriane, e non voleva perdere il suo sposo. Probabilmente cercò di dissuadere il marito dall'impresa ma, si sa, nell'antichità – e anche oggi seppur con modalità diverse – la missione di ogni sovrano era cercare di estendere il proprio regno quanto più possibile, vuoi per sete di potere, vuoi per evitare di essere sottomesso da altri potenti. Venne così l’alba in cui Tolomeo partì per quella terra lontana. La regina, come una Penelope egiziana in attesa del suo Ulisse, stava in pena, i giorni parevano non passare mai, l’attesa la sfiniva. Così dopo aver molto pensato a come assicurarsi il ritorno dello sposo decise che, se avesse riabbracciato Tolomeo sano e salvo, avrebbe offerto agli dèi la sua chioma. Il poeta latino Catullo, come vedremo più avanti, tradusse il componimento greco che Callimaco dedicò alla  vicenda facendo parlare in prima persona proprio la chioma della regina:

quanto spesso, o Giove, sfregasti con triste mano i begl'occhi!
Qual dio ti mutò, possente? O forse chi ama
non vuole stare a lungo lontano dal corpo amato?
Fu allora che per il dolce sposo mi votasti
a tutti gli dèi, non senza sacrificio di un toro,
se fosse tornato.
(Catullo, Carmi, LXVI, 30-35)
 

Il faraone vinse Seleuco e la sua vittoria non si limitò a sottomettere la Siria ma tutto il regno seleucide: conquistò le città greche dell’Asia Minore – l’odierna Turchia – e spinse il suo esercito fino alla Battriana, oggi corrispondente all'Afghanistan. La notizia dei successi del re giunse in patria e Berenice, sollevata e grata agli dèi, si recò al tempio di Afrodite: là si accostò all'altare e chinata la testa, tagliò i lunghi riccioli color dell’ebano.

Contro voglia, o regina, dal tuo capo mi staccai,
contro voglia: giuro su te e il tuo capo.
(Catullo, Carmi, LXVI, 39-40)
 

Con il capo rasato ma senza aver sminuito la sua bellezza, la regina attese pazientemente Tolomeo finché un giorno, quando il sole si congiungeva alla linea dell’orizzonte lasciando il cielo cosparso di riflessi rosati, vide avanzare in lontananza un grande esercito: davanti, scortato da sei cavalieri, un guerriero dall’armatura lucente lo conduceva, il volto protetto da un elmo sormontato da un elegante pennacchio rosso; vittorioso era il passo del cavallo che montava. Berenice conosceva bene quel pennacchio e senza attendere oltre, corse incontro al cavaliere. Quando Tolomeo riconobbe Berenice, scese da cavallo e l’accolse tra le sue braccia. Berenice poi guardò il suo sposo che non vedeva da cinque lunghissimi anni: vide il guerriero nelle ferite che si erano impresse sulle braccia, sul collo e sul volto, quel volto provato di chi ha visto troppi uomini morire; ma poi riconobbe in quegli occhi scuri anche lo sguardo fermo e audace del re dell’Egitto, che adesso era anche signore della Siria, della Mesopotamia, della Babilonia e della Susiana, della Persia, della Media e della Battriana. Tolomeo a sua volta guardò la sua sposa, contemplandone a lungo la bellezza. Si stupì solo del velo che nascondeva i capelli bellissimi, ma non domandò nulla desiderando soltanto rientrare a casa. Quando finalmente furono soli, Berenice sollevò il velo dalla fronte e lo lasciò cadere, mostrando il capo ricoperto da corti capelli. Tolomeo non credette ai suoi occhi. “Che hai fatto?”, le chiese. “Ho fatto un voto”, rispose la regina. “Ad Artemide e agli dèi tutti. Se mi avessero concesso di rivederti vivo, li avrei ringraziati offrendo loro i miei capelli. Li puoi trovare al tempio, sull'altare”. Il re rimase ammutolito e riuscì soltanto a voltarsi per uscire e recarsi al tempio, forse nell'assurda speranza di poter restituire i capelli a quel viso che tanto amava. Ma quando giunse davanti all'altare, non trovò nemmeno un capello. “Cos'è questa storia?”, gridò spazientito a Berenice che gli era andata appresso. La regina rimase turbata ancor più del re e non seppe cosa dire. Se solo avesse prestato ascolto alla notte stellata, avrebbe udito una voce dalle preziose parole…

Mi piangevano, tagliata appena allora,
le sorelle chiome e subito irrompeva,
movendo a cerchio le veloci penne, un lieve vento,
fratello dell’etiope Memnone, cavallo della locrese Arsinoe
dalla cintura di viole… mi [rapì] in un soffio e portandomi
nelle brume dell’aria mi depose nel seno di Cipride.
(Callimaco, Chioma di Berenice, 51-56)
 

In quella notte densa di stelle, proprio vicino al tempio stava scrutando il firmamento l’astronomo di corte, Conone. Udita la disputa della coppia reale, si affrettò a raggiungere il faraone per placarne l’ira. “Mio signore”, disse inginocchiandosi davanti a Tolomeo. “In verità i capelli della sua regina sono spariti dal tempio il giorno dopo che ella se li recise. Ma io so dove sono…”. Detto questo si alzò in piedi e indicò il cielo. “A ovest di Bootes, sopra il Leone, vede quell’amabile luccichio? Eccoli, sono i capelli della sua signora. Gli dèi li hanno trasformati in stelle e da allora in cielo abbiamo una nuova costellazione: io l’ho chiamata Chioma di Berenice”.

sfiorando i segni della Vergine e del fiero
Leone, congiunta a Callisto figlia di Licaone,
mi muovo verso il tramonto precedendo il lento Boote,
che tardi a stento nell'Oceano s'immerge.
(Catullo, Carmi, LXVI, 65-68)
 

Era il 245 a.C. quando l’astronomo Conone battezzò quella manciata di stelle dedicandola alla sua regina, e la costellazione godette di grande fama presso i poeti. La composizione più antica sul voto della regina egiziana, è quella di Callimaco, il più famoso dei poeti alessandrini, vissuto a cavallo fra il IV e il III secolo a.C. Come Berenice era nato a Cirene, mentre come Tolomeo III si dedicò alla Biblioteca di Alessandria, diventandone bibliotecario. Come Conone infine era al servizio proprio di Tolomeo III, così che i protagonisti della leggenda e il loro cantore erano tutti contemporanei e conoscenti. Callimaco compose l’elegia intitolata Chioma di Berenice al ritorno del re dalla guerra contro Seleuco, poco dopo le sue nozze con Berenice. Purtroppo il suo componimento ci è giunto solo in frammenti su un paio di papiri egizi, uno del I secolo a.C. e uno molto più tardo, del VI-VII secolo d.C. Ma fortunatamente ci fu nell’antichità chi poté apprendere per intero i 94 versi dell’elegia: era Catullo, che visse nella seconda metà del I secolo a.C. Catullo amò profondamente il componimento di Callimaco e volle tradurlo in latino. La sua traduzione è sopravvissuta e così possiamo gustarne anche noi la raffinatezza nonché conoscere la trama di questa storia salita agli astri. Anzi, pare proprio che Callimaco in realtà non abbia fatto altro che porgere l’orecchio verso la piccola costellazione e trascrivere un lontano sussurro che soltanto un poeta può udire.

Colui che distinse ogni luce del cielo,
e scoprì il sorgere e il tramontare degli astri,
e come il fulgore abbagliante del rapido sole si oscuri,
e come gli astri si celino a tempi prefissi,
e come un amore richiami in segreto la Luna dal celeste
suo giro per celarla tra le rocce di Latmo,
proprio lui, quel Conone, piacendo agli dèi
mi vide, chioma staccata dal capo di Berenice,
che ben chiara splendevo, e che lei, levando
le esili braccia, a molti dèi aveva promessa
allorquando il re, da nuove nozze accresciuto,
s'era mosso ad annientare le terre d'Assiria
con ancora sul corpo le tracce soavi della rissa notturna
ingaggiata per le spoglie della vergine.
(Catullo, Carmi, LXVI, 1-14)
 

Il richiamo in segreto della Luna allude all'amore della dea per il pastore Endimione. Ella si allontanava dal cielo per incontrarlo sul monte Latmo, in Caria, entrando così nella fase di luna nuova, quella in cui diviene invisibile. Le terre degli Assiri erano invece quelle di Seleuco. La chioma tramutata in stelle prosegue il racconto ricordando di come fu recisa e di come si unì agli altri astri. Tuttavia il privilegio di essere lassù non la rese né orgogliosa né felice. La Chioma di Berenice è infatti una costellazione malinconica, che volge le sue luci sempre verso la terra, là dove dimora colei che la recise.

E tu, o regina, quando, guardando le stelle, placherai
nei giorni di festa Venere santa,
non lasciare ch'io resti senza sacrificio, di nuovo
rendimi tua con generose offerte. Riprendano gli astri
il loro cammino di un tempo, e io torni una chioma regale:
Orione tornerebbe a risplendere accanto all'Acquario!
(Catullo, Carmi, LXVI, 89-94)

 

Il desiderio della chioma come sappiamo è rimasto inesaudito e così ancora oggi possiamo riconoscere fra le stelle i capelli tanto celebrati. Ma qual era il volto della regina egiziana? L’antichità ci ha trasmesso varie raffigurazioni, una delle quali è una scultura conservata alla Gliptoteca di Monaco.


04 - Chioma di Berenice (mito)
Testa di Berenice II il cui scultore è sconosciuto (Glitptoteca di Monaco, seconda metà del III secolo a.C.).

L’autore è rimasto sconosciuto ma l’opera è contemporanea alla regina o di poco successiva. In questo  capo vediamo una giovane donna dai tratti aristocratici, la cui espressione non lascia trapelare né gioie né timori, come esige il ruolo regale, ma si ammanta di una composta fermezza.
A dispetto della tradizione, la regina è raffigurata con i capelli raccolti e il motivo è da ricercarsi nel fatto che siamo davanti a un ritratto per così dire “ufficiale”, volto a rappresentare il ruolo più che la persona.

Per vedere Berenice come l’abbiamo conosciuta nell’episodio legato alla costellazione, possiamo osservare il quadro di Bernardo Strozzi, pittore genovese del Seicento influenzato da artisti come Rubens, Veronese e Velasquez. Strozzi è stato uno dei maggiori interpreti della pittura barocca italiana con uno stile del tutto personale.

04 - Chioma di Berenice (mito)
Berenice di Bernardo Strozzi (El Paso Museum of Art, El Paso, Texas, 1640).

Nel dipinto del 1640, oggi conservato all’El Paso Museum of Art, vediamo Berenice sotto sembianze decisamente appartenenti all’epoca del suo autore, così come il suo abbigliamento. Strozzi l’ha colta nell’atto di recidere una ciocca dei preziosi capelli, mentre col viso rivolto al cielo, sta pronunciando il suo voto agli dèi.

Conclude la rassegna la tavola uranografica dell’astronomo polacco Johannes Hevelius (a inizio pagina) pubblicata postuma nel 1690. Trattandosi di un atlante celeste, naturalmente qui è raffigurata la costellazione e dunque solo la chioma della regina. Hevelius evidenziò nello stesso disegno anche la costellazione del Bootes a cui era legato il piccolo gruppo di stelle chiamato Monte Menalo, scaturito dalla fantasia dell’astronomo-artista. Oggi quest’ultima costellazione rientra fra quelle obsolete, ma Hevelius volle vedervi la montagna dell’Arcadia frequentata dal Bifolco, l’altro nome con cui è conosciuto Bootes,

 

 

 

 

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