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IDRA

Hydra, Hydrae

Hya

 

03 - Idra (mito)

La costellazione dell'Idra nell'Uranographia di Hevelius (1690).     
Immagine: http://www.atlascoelestis.com

 


Storie di veleno sono quelle racchiuse fra le spire dell’Idra, letteralmente un serpente d’acqua, fisicamente un mostro generato dall’unione di Tifeo, il terribile iniquo e violento, con la 

divina Echidna dal cuore violento,
metà fanciulla dagli occhi splendenti e dalle belle guance
ma metà prodigioso serpente terribile e grande,
astuto, crudele, della divina terra sotto i recessi.

come li definisce Esiodo nella sua Teogonia.

L’orribile serpente aveva la sua dimora a Lerna, cittadina costiera vicina ad Argo e precisamente sotto un platano situato presso la triplice sorgente dell’Amimone, come ci narra il viaggiatore Pausania.

Nella tragedia di Seneca La follia di Ercole, Anfitrione, il padre putativo di Eracle, definisce il mostro un flagello molteplice poiché essa devastava tutta la regione. Il suo veleno era letale e cento teste aveva a disposizione per sputarlo e colpire. Una volta centrati, la morte sopraggiungeva dilaniante, la vittima in preda a spasimi convulsi consumava in una lenta tortura i suoi ultimi respiri.

Dell’Idra si servì Era, la sposa di Zeus, nel suo secondo tentativo di uccidere Eracle, il figlio nato dal tradimento del suo sposo con la mortale Alcmena, sovrana di Tebe.

La sfida contro l’Idra di Lerna fu così la seconda delle dodici fatiche di Eracle, imprese imposte dal cugino Euristeo, nato prematuramente per volere di Era al fine di impedire all’eroe di regnare sulla famiglia dei Perseidi, come aveva invece stabilito Zeus, e vendicarsi in questo modo dell’infedeltà subita.

Quando Eracle si trovò faccia a faccia con l’Idra, si vide decine di teste fluttuare disordinatamente sopra di sé; senza esitare si scagliò con tutto il suo coraggio e la sua forza contro il mostro in una successione ostinata di decapitazioni. Ma una terribile sorpresa lo aspettava…

Quello si rigenerava dalle sue stesse ferite, e delle cento teste che aveva,
non ce n’era una che si potesse mozzare senza che sul collo,
più sano di prima, due gliene succedessero.
(Ovidio, Metamorfosi, IX, 70-72)

L’Idra era invincibile e, come se non bastasse, la testa centrale era immortale. Come abbatterla?

Quando la forza non è che uno sterile spreco di energie, serve il potere dell’astuzia. Eracle capì che vi era un solo modo per impedire la prolifera rigenerazione del mostro: bruciare la carne là dove due teste sarebbero risorte. Per fare questo però, aveva bisogno che qualcuno lo aiutasse. Con lui c’era Iolao, suo nipote e compagno di altre imprese. Questo è ciò che accadde:

L’eroe chiamò in aiuto Iolao: e questi diede fuoco alla macchia lì vicino, e con i tizzoni ardenti impediva alle nuove teste di spuntare bruciando la carne alla base delle teste mozzate. In questo modo riuscì ad avere il sopravvento sulle nuove teste, e a mozzare finalmente anche quella immortale: poi la seppellì e ci mise sopra una pesante pietra, presso la strada che da Lerna porta a Eleunte. Il corpo dell’Idra, invece, lo fece a pezzi, e intinse le sue frecce nel fiele della bestia.
(Apollodoro, Biblioteca, II, 5)

A queste frecce avvelenate un’altra storia è legata, storia stavolta di passione, quella che si impadronì del centauro Nesso. Nelle Metamorfosi, Ovidio ricorda così la vicenda:

… Ercole, figlio di Giove, se ne tornava con la novella sposa alla volta delle patrie mura,
ed era giunto alla rapida corrente dell’Evèno. Il fiume, cresciuto per le bufere invernali,
era più gonfio del solito, pieno di vortici e pericoloso.
Ercole non aveva paura per sé, ma era preoccupato per la consorte,
quando fu avvicinato da Nesso, forzuto e pratico dei guadi, il quale gli disse:
“Provvedo io a deporre costei sull’altra sponda, o nipote di Alceo. Tu, gagliardo come sei, passa a nuoto”.
(Ovidio, Metamorfosi, IX, 103-110)

Così fece Ercole ma, giunto alla riva opposta, udì la sua donna gridare e, voltatosi, vide il centauro scappare portandosi via lei, nel ritmo rullato degli zoccoli equini. Velocissimo l’eroe puntò il suo arco verso il fuggitivo e una delle frecce letali infilzò la schiena di Nesso.

Il ferro a uncino rispunta dal petto e, come viene estratto,
il sangue sprizza via da entrambi i fori,
misto al veleno infetto del mostro di Lerna.
Nesso raccoglie questo sangue brontolando fra sé: “Non morirò senza vendicarmi!”,
e a colei che voleva rapire dona la propria veste intrisa del liquido ancora caldo,
dicendole che è uno stimolante per l’amore.
(Ovidio, Metamorfosi, IX, 128-133)

Il veleno dell’Idra, conservato segretamente da Deianira, la sposa di Ercole, sarebbe tornato un giorno a colpire di nuovo, questa volta proprio colui che unico lo vinse. Dopo lunga assenza, l’eroe era di ritorno a Trachis, la città della Tessaglia dove si stabilì insieme alla moglie. Molte altre pericolose imprese aveva compiuto, lontano da casa, in ogni terra dove l’odio di Era lo inviò, e sempre ne era uscito vittorioso.

Anche il giorno in cui tornò a Trachis, tornò da vincitore. Aveva appena distrutto la città di Ecalia in Eubea, in seguito alla promessa non mantenuta del re locale di cedergli in sposa la figlia Iole, qualora fosse stato vinto in una gara di tiro con l’arco. Eracle reagì all’oltraggio uccidendo uno dei figli del re poi, prima di ammazzare anche lui, rase al suolo la città affinché la morte fosse per il re ancora più crudele e, fatta prigioniera Iole, fece ritorno a Trachis. Giunto ai piedi dell’Eta, il monte sacro a Zeus non lontano dalla città, si fermò per sacrificare al padre divino in segno di ringraziamento. Deianira, innamorata e per lungo tempo privata della compagnia dello sposo, era in fervida attesa. Ma, venuta a sapere della ragazza che lo accompagnava, fu presa da rabbia cieca e da una disperata gelosia. Si ricordò allora di quando il centauro Nesso tentò di rapirla e, ferito a morte da Ercole, le fece un dono di inestimabile valore per il suo potere di irretire chi lei desiderasse. Ricordò le parole del centauro agonizzante:

“Figlia del venerando Eneo, ti darà frutto il guado,
se mi ascolti. A te, sì, che sei l’ultimo viaggio mio.
Ecco: se con le dita cogli i grumi,
blocco di sangue della mia ferita,
lì sulla punta che la biscia di Lerna
temprò col fiele velenoso nero,
ti farà da magico richiamo per l’amore d’Eracle,
e non ci sarà donna, agli occhi suoi,
degna d’affetto più di te”.
(Sofocle, Trachinie, 569-577)

Ma Nesso aveva mentito… Quella bugia non era altro che la sua vendetta. Deianira, disposta a tutto pur di riavere il suo uomo, fece recapitare il dono del centauro all’eroe. Ciò che accadde dopo, fu uno spettacolo atroce e ripugnante. Ovidio fu uno dei pochi poeti che con le parole seppe descrivere questo spasimo abissale:

Ercole, ignaro, prende la veste, e infilandosela si ammanta di veleno del mostro di Lerna.
L’eroe stava offrendo incenso e recitando preghiere
davanti ai fuochi appena accesi, versava vino dal calice sugli altari marmorei.
Il potente veleno cominciò a ribollire e, sciolto dal calore delle fiamme,
scolò e si sparse dappertutto sulle sue membra.
Finché poté, egli represse i gemiti col suo ben noto coraggio.
Ma quando le sofferenze divennero intollerabili,
rovesciò gli altari e riempì delle sue urla l’Eta boscoso.
E subito tenta di strapparsi di dosso la veste micidiale:
nei punti dove la tira, quella tira la pelle e, cosa raccapricciante,
o resta incollata al corpo malgrado gli sforzi di staccarla,
o gli sbrindella le carni e gli mette a nudo le enormi ossa.
E il sangue stride come lama incandescente tuffata in una vasca gelida,
e cuoce all’ardore del veleno. E il male è inarrestabile:
fuoco avido gli divora i visceri e tutto il corpo gronda di sudore azzurrognolo,
i tendini bruciati schioccano…
(Ovidio, Metamorfosi, IX, 159-174)

E mentre Ercole emetteva grida strazianti, Deianira comprese l’inganno; sconvolta, tormentata dal rimorso e dal dolore, si tolse la vita.

Ma anche là sul monte Eta, la morte era angosciosamente invocata. Eracle non sopportando più l’indicibile tortura, supplicò suo figlio Illo di preparare un fuoco con dei rami di quercia, e di adagiarlo in quel letto ardente. Con le intense parole che il tragico Sofocle immaginò, l’eroe si sottrasse così alla vita:

A te, cuore. Témprati Inchiodami le labbra,
marmo cementato di metallo prima che riviva il male.
Schiaccia l’ululo.
E’ l’ultimo atto del dramma non scelto.
Fallo, gioioso!
(Sofocle, Trachinie, 1259-1263)

La seconda fatica di Ercole è stata ampiamente celebrata nell’arte, fin dai tempi più antichi. Numerosissime sono le pitture vascolari greche che ritraggono l’eroe alle prese col mostro di Lerna.

Una di queste si trova su un'anfora a figure nere del VI secolo a.C. dipinta alla maniera del Pittore di Princeton. In tutte le rappresentazioni della seconda fatica, i personaggi costanti che si cimentano con la creatura sono l'eroe, naturalmente, e il nipote Iolao, mentre altri personaggi come Atena possono anche non essere stati raffigurati. In questo caso la dea si vede ed è alle spalle di Ercole (a sinistra). Anche Iolao dalla parte opposta ha alle spalle un uomo che tuttavia non è ben identificato.

 

03 - Idra (mito)

La seconda fatica di Ercole sull'anfora a figure nere nello stile del cosiddetto Pittore di Princeton (Museo del Louvre, 540-530 a.C.).

 

Degli inizi del VI secolo a.C. è invece la lekythos attica del Pittore di Diosphos, anch'essa a figure nere come vuole la tradizione originaria della pittura vascolare greca. Eracle indossa la pelle del leone nemeo, conquista della sua prima impresa e con una spada è intento a recidere le teste dell'idra, mentre un grosso granchio inviato da Era (la futura costellazione del Cancro) lo attacca alla gamba destra. L'eroe gode però della protezione di Atena, alle sue spalle. Dalla parte opposta il nipote Iolao, in armatura, stringe una delle cento teste con una mano mentre con l'altra regge un tizzone ardente pronto a bruciare i colli prima che due nuove teste rinascano.

 

03 - Idra (mito)

Lekythos attica a figure nere del Pittore di Diosphos raffigurante Ercole che uccide l'Idra. L'immagine è un montaggio della figura complessiva che avvolge lo stretto vaso (Museo del Louvre, ca. 500-480 a.C.).
Immagine: www.theoi.com

 

Di simile disegno è la pittura sullo stamnos attico a figure rosse del Pittore di Syleus. Ercole e Iolao sono intenti a mozzare le teste dell'Idra che paiono lunghi tentacoli impazziti. L'eroe è riconoscibile oltre che dalla pelle che indossa del leone di Nemea, anche dalla inseparabile clava ai suoi piedi. Lo stamnos è un vaso simile all'anfora generalmente utilizzato per conservare liquidi o per mescolare il vino come si faceva nel cratere.
 

03 - Idra (mito)

Stamnos attico a figure rosse del Pittore di Syleus raffigurante Ercole contro l'idra (Museo del Louvre, ca. 500-450a.C.).
Immagine: www.theoi.com

 

Anche in epoche successive l’impresa non è stata dimenticata. Famoso è il quadretto del Pollaiolo risalente al 1475 circa e conservato agli Uffizi, in cui Ercole con la sua inseparabile pelle di leone e la sua clava è intento ad abbattere l’Idra.

 

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Ercole e l'Idra di Antonio del Pollaiolo (Galleria degli Uffizi, ca. 1475).

 

Il francese Gustave Moreau dipinse invece nel 1876, Ercole ancora fermo, che sta probabilmente studiando come affrontare il mostro.

 

03 - Idra (mito)

Ercole e l'Idra di Lerna del pittore parigino Gustave Moreau (Art Institute of Chicago, Illinois, 1876).

 

Nel quadro è data enfasi soprattutto alla dannosità dell’Idra: il suolo è infatti disseminato di morti. D’altra parte il simbolo che sta dietro a questo mito riguarda proprio la vana lotta dell’uomo contro la morte. Il serpente a molte teste ha una tradizione molto antica, risale ai pittori mesopotamici i quali rappresentavano così la difficoltà di misurarsi con un simile avversario, avversario che unitamente alla presenza di una testa immortale, non poteva che essere la morte.

 

 

 


 

 

 

 

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